sabato 24 novembre 2007

Make war not love - 3

Mi sorprendo io stesso del disgusto che provo a sentir parlare di pacifismo. Eppure, non ho mai agito in modo violento (assurdità: diciamo che la maggior parte delle mie azioni e reazioni non sono violente), né sono un guerrafondaio (al contrario: obiettore di coscienza), ma l’idea del pacifismo, o di movimenti no war mi fa rabbrividire e mi provoca un senso di nausea.

You may say I’m a dreamer, maybe I’m just the only one.
Eppure non riesco a comprendere come persone dotate di una minima dose di buonsenso possano anche solo immaginare un mondo dove ogni traccia della guerra è stata cancellata. È un pensiero che offende la natura e la ragione, la storia e la realtà: mai esisterà sulla faccia della terra anche solo un instante senza guerra, e nemmeno avrebbe ragione di esistere. Tra l’altro l’evidenza di questa affermazione è disarmante, e mi si perdoni il gioco di parole. Non bisogna essere filosofi, storici, scienziati o uomini di cultura per constatarlo.

Ma come: proprio noi, con alle spalle secoli e secoli di testimonianze, dati e informazioni; proprio noi, costantemente aggiornati su tutto ciò che avviene in ogni angolo del mondo, abbiamo la sfacciataggine di scendere in strada per rivendicare una vita no war?

Le magnifiche sorti e progressive - 12

Non è senza un certo compiacimento che ciascuno di noi considera il progressivo allungarsi della vita media dell’essere umano.
Eppure, a guardar bene, la vita, oggi, è davvero più lunga? No: è la sopravvivenza che si protrae. La sola parte dell’esistenza che si prolunga è la vecchiaia: si rallenta la degenerazione senza per questo eliminarla.
Un conto, infatti, sarebbe frenare la crescita; un altro è rallentare l’invecchiamento. Prolunghiamo il peggio, per dirla in altre parole. All’interno delle nostre società ottuagenarie, gli individui non possono far altro che rispecchiarsi l’uno nell’altro, e offrirsi vicendevolmente come relitti alla deriva, relitti che sì, forse ci metteranno un po’ di tempo in più ad innabissarsi, ma che in ogni caso non sfuggiranno a questo inevitabile destino.

Noi per primi siamo dei rottami, e ovunque ci voltiamo non vediamo altro che vecchi catorci che si nascondono dietro una parossistica attività fisica. È quantomeno paradossale che le società contemporanee dichiarino di voler essere sempre più giovani, veloci ed efficienti quando fisicamente e mentalmente sono sempre più vecchie e dunque incapaci di rispondere agli standard di efficienza che esse stesse si impongono.

È vero, andiamo in palestra. È vero, facciamo jogging, o pedaliamo. Ma qualcuno si è mai preso la briga di osservare con attenzione chi pratica attività fisica? Nessuno sembra prendere coscienza del fatto che sempre meno bambini, adolescenti e giovani praticano sport, mentre quello che faticosamente si muove nei parchi e nelle palestre è un mondo di uomini di mezza età o pensionati, non certo di ragazzini. Non essere umani acerbi, dunque, ma frutti che hanno oltrepassato il confine della maturità e cercano semplicemente di ritardare o nascondere l’evidente decadimento, la marcescenza.

Ebbene sì: a sostenere sulle proprie spalle le progredite società occidentali sono da un lato giovani obesi, inetti, incapaci di qualsiasi movimento, sforzo o azione. Una generazione di sedentari, di masse debordanti di carne umana stordite e inebetite dal passivo esercizio della scatola televisiva, in ogni forma e derivato. Dall’altro abbiamo una proliferante massa di anziani, dei quali alcuni conservano qualche barlume di efficilenza fisica e lucidità intellettuale, mentre la maggior parte sopravvive o tira a campare, chi su una sedia a rotelle, chi senza la possibilità di muoversi, parlare o pensare, e così via.