sabato 20 dicembre 2008

Make war not love - 4

Tutto ha un limite.
Ed è ora di porre un limite al relax, al comfort, alla dolce vita: hanno creato più danni loro di tutti i conflitti bellici. Non ne posso più di questa pace. Sono nauseato da questo benessere. Non tollero più questa società di vecchi, obesi, cardiopatici, narcotizzati, stressati, impotenti, questo orrendo teatrino di eterni giovani, di smemorati, di perversi, di inetti e ipocriti: buoni solo a lamentarsi ma incapaci di muovere un dito.

Io, signori, affermo la necessità della guerra mio malgrado. Ne farei volentieri a meno, con tutto me stesso. Ma è la gravità della situazione - e non certo una mia personale predisposizione o inclinazione - a imporre rimedi di tale portata.

Se c’è una via d’uscita da questa nebbia, dal torpore che ci attanaglia le membra, dall’indifferenza, dalla stagnazione e dalla passività che ci caratterizzano, questa scappatoia - dannazione - è la guerra.
Siamo giunti a un punto tale di saturazione che contro decenni di stordimento e narcotici, benessere e televisione, l’unico antidoto efficace è un brusco, violento, inaspettato, devastante irrompere della realtà nella sua forma più cruda e atroce. C’è assoluta necessità di dolore (quello reale, che si prova sulla propria pelle); di sofferenza e di sangue (il proprio sangue, quello che scaturisce dalle nostre ferite); qualcuno deve destarci da questo dormiveglia non con delicatezza e tatto, ma con uno schiaffo, un pugno nello stomaco, meglio ancora una coltellata alle spalle. Ma vera, non simbolica né metaforica.

In altre parole, qualcuno deve attaccarci, quanto prima, necessariamente: in primo luogo, perché noi non abbiamo la forza nè l'ardire di muovere un dito. Secondariamente, perché prima che sia troppo tardi – prima di farsi inghiottire totalmente dal nulla, prima di svanire definitivamente – la nostra sola speranza è di rappresentare qualcosa per qualcuno, di dimostrare ancora la nostra consistenza, la nostra esistenza. C’è bisogno che sia qualcun altro a dircelo, e l’unico modo per scuoterci da questo torpore e farci aprire gli occhi è attaccarci, bombardarci, devastarci, procedere alla nostra eliminazione. Qualcuno deve fare della Vecchia Europa non la culla, ma la tomba della civiltà. Deve darci giusta e meritata sepoltura, o quantomeno provarci. Qualche benefattore, in altre parole, deve identificarci con il nemico. Quanto sarebbe rivitalizzante!

Senza alcun dubbio ciò che non ci serve è continuare a far finta di vivere in questa calma piatta, in questa nebbia che tutto confonde e nasconde: è tempo che le foschie si diradino per mostrare a noi vecchi, stanchi, deboli e annoiati, a noi vegliardi dalla vista debole e dalla memoria corta, come in realtà stanno le cose.

Di fronte a un assalto di tale portata misureremo finalmente il nostro effettivo valore. Soccomberemo tutti, indistintamente? Amen. Così sia. Non mi sento di versare nemmeno una lacrima. Spargeranno le nostre ceneri sul terreno per concimare i campi, in attesa del fiorire di una nuova civiltà. Qualcuno dei nostri, invece, scamperà al massacro? Avrà la forza o la fortuna di sopravvivere? Dopo essere passato attraverso la guerra, il dolore e la sofferenza forse avrà tonificato le membra, aguzzato la vista e acuito tutti gli altri sensi. Forse, avrà la schiena un po’ più dritta di prima e non si aggirerà per la terra come un morto vivente. Forse, dopo un’esperienza del genere, la nebbia si diraderà e potrà vedere più distintamente.

In ogni caso, entrambi i risultati – la nostra totale eliminazione o la sopravvivenza di pochi - sarebbero da salutare come un successo, e sarebbero senz’altro preferibili a condurre un’esistenza quale quella attuale.

Ma la realtà – ben più terribile della mia invocazione della guerra - è che noi, esseri umani di questa parte del mondo, noi della Vecchia Europa, e noi italiani in particolare, non facciamo paura a nessuno. Non rappresentiamo nulla. Del resto che timore possono incutere dei poveri vegliardi anche se alzano la voce? A chi possono dare fastidio? Noi non valiamo più niente. Oggi, adesso: non domani o in qualche prossimo futuro.

La sola ragione – questa sì – che potrebbe motivare un attacco consiste nel fatto – e non cesserò mai di ribadirlo – che questa massa di anziani inebetiti da decenni di benessere & comfort consuma una quantità indecente di risorse: economiche, umane, energetiche, tecnologiche. Un'assemblea di saggi dovrebbe quindi mettersi al tavolino, fare due conti e giungere al confortante risultato che noi non siamo altro che un inutile esercito di consumatori: così noi stessi amiamo definirci. Ci ostiniamo a tirare a campare il più a lungo possibile succhiando e sottraendo risorse a chi ne avrebbe indiscutibilmente più necessità di noi.

Unica, definitiva via d'uscita, e sola igiene del mondo, la guerra rappresenterebbe l’improvvisa invasione della realtà nella sua veste più cruda, atroce e dolorosa in una parte del mondo - la nostra - che ha scelto di non vivere, o di lasciarsi vivere, o meglio ancora di delegare ad altri la fatica di esistere.

In fondo quale più efficace contrappasso, per una civiltà di consumatori, che quello di essere voracemente e definitivamente consumata?

Il pensatore del XXI sec. - 8

Il piacere che si trae dalle cosiddette attività dello spirito, deriva in ultima istanza dal fatto indubitabile che né noi, né alcuno prima o dopo di noi, potrà mai trovare una formula esaustiva, un singolo schema, un'unica e definitiva risposta a tutti gli interrogativi che l'essere umano, dalla sua comparsa sulla terra, si è posto incessantemente.
Perchè in realtà, se per disgrazia – ma ciò non accadrà mai – un giorno qualche saggio giungesse davvero alla scoperta della legge del tutto, della verità assoluta, nessuno avrebbe più nulla da cercare, e cesserebbe la sola e vera fonte di sommo piacere che sia stata concessa all'essere umano: la ricerca stessa, appunto. Anche gli stolti e gli ingenui lo sanno, e ciò vale in qualsiasi campo; ma tale assunto è altrettanto chiaro nella mente dei saggi, che hanno essi stessi sperimentato, nel corso della loro vita, che nessun obiettivo raggiunto vale quanto il suo stesso raggiungimento. Una volta che si arriva ad ottenere ciò che a lungo e tenacemente si è cercato, l'oggetto della ricerca perde immediatamente di interesse, e viene sostituito con un altro.

Quindi il vero saggio sa che il vero piacere che consegue dell'attività intellettuale e più in generale dello spirito - la più alta espressione dell'umana specie - consiste nell'escludere a priori, unica tra le attività umane, il raggiungimento dell'obiettivo.

L'attività dello spirito - e dunque la ricerca della verità, la formulazione della teoria del tutto - è la sola a non poter per definizione raggiungere l'obiettivo, ed è dunque unica dispensatrice di un piacere che sarà lungo tanto quanto l'esistenza dell'essere umano.

lunedì 17 novembre 2008

Caino e Abele



(L'Antico Testamento apocrifo è un esercizio di riscrittura di alcuni dei capitoli del testo biblico. Per chi fosse interessato, si suggerisce la lettura parallela e il confronto con le scritture originali.)

Genesi, 4 : 1 -16


Adamo si unì a Eva sua moglie che rimase incinta e partorì Caino (l'Acquistato), 'Perché, - disse – grazie a Dio ho acquistato un figlio'. Poi diede alla luce anche il fratello di Caino, Abele. Abele divenne pastore di greggi e Caino coltivatore della terra. Qualche tempo dopo, Caino portò come offerta al Signore alcuni prodotti della terra: aveva lavorato sin dalle prime ore dell'alba per raccogliere con le proprie mani il grano migliore, i frutti più dolci e saporiti, le foglie più tenere cresciute nei campi che Dio stesso gli aveva destinato. Abele, a sua volta, fece un a selezione tra le bestie del gregge che comandava, scelse i primogeniti e li portò in disparte. Quindi tolse dalla tasca la pietra affilata che con perizia e meticolosità aveva lavorato la sera prima davanti al fuoco, e con quella recise il collo di quegli esseri docili e inconsapevoli. Il sangue colava copioso, e Abele lo raccolse con cura in alcune coppe. Quindi smembrò i corpi privi di vita delle bestie e ne offrì al Signore le parti migliori, gettandole su una brace ardente.
Al contatto col fuoco, la pelle si rapprese, la carne si imbrunì, il grasso prima si sciolse, poi inizio a gocciolare e a friggere. Una densa colonna di fumo dal piacevole odore si sollevò verso il cielo.
Il Signore aveva seguito con estrema attenzione le gesta dei due fratelli, ma era rimasto letteralmente rapito dallo spettacolo di sangue e morte che Abele aveva allestito a sua eterna gloria. Era la prima volta dal giorno della creazione che Dio vedeva degli esseri morire per mano di altri esseri, creati a sua immagine e somiglianza. Il Signore era stordito, turbato, scosso fin nel profondo. Dentro di se aveva sempre saputo che le cose sarebbero dovute andare così, 'Ma un conto – disse tra sé e sé – è la conoscenza, un conto è l'esperienza'. Non riusciva a cancellare dalla memoria quella sequenza di stimoli e sensazioni che l'avevano prima soggiogato e poi sopraffatto.

Fu così che trascinato dalle sensazioni e dalle emozioni il Signore non poté far altro che fissare il proprio sguardo benevolo e stupefatto verso Abele e la sua offerta, mentre non prestò la benché minima attenzione a Caino e alla sua offerta. Caino si irritò e rimase col volto abbattuto. Il Signore disse: 'Perché ti si abbattuto? Perché sei tanto scuro in volto? Se agisci bene il tuo volto tornerà sereno, se no, il peccato, che sta accovacciato alla tua porta, vorrà avere il sopravvento su di te. Ma tu devi dominarlo.'
Disse tra sé Caino: 'Se il Signore ha preferito il sacrificio degli animali rispetto a quello dei frutti e delle messi, allora gradirà ancor più il sacrificio di un essere uguale a me a eterna gloria del suo nome, rispetto a quello di un animale di un gregge. E se l'essere in questione è mio fratello di sangue, allora il Signore non potrà che guardarmi con benevolenza.'
Un giorno, mentre Caino e Abele stavano parlando insieme nei campi, Caino si scagliò contro Abele suo fratello e lo uccise, e offrì al Signore il sacrificio del fratello.
Il Signore gradì il sacrificio a lui offerto, vide che Caino era un uomo giusto e volle ricompensarlo.
Disse il Signore: 'Caino! Io sono il Signore tuo Dio. Tu hai offerto a me il sangue del tuo sangue, e dunque grande sarà la tua ricompensa. Ti proteggerò come uno scudo. Farò di te un popolo numeroso, una grande nazione. Il tuo nome diventerà famoso. Ti benedirò. Sarai fonte di benedizione. Farò del bene a chi te ne farà, e punirò sette volte più severamente chi ti farà del male.'
Allora il Signore mise un segno su Caino, come simbolo dell'alleanza tra Dio e l'uomo.

venerdì 14 novembre 2008

Dio sceglie Mosè per liberare Israele

(L'Antico Testamento apocrifo è un esercizio di riscrittura di alcuni dei capitoli del testo biblico. Per chi fosse interessato, si suggerisce la lettura parallela e il confronto con le scritture originali.)

Esodo, 2 - 23 : 25

Il Signore, che tutto osserva e tutto giudica, aveva seguito con particolare sorpresa e interesse le recenti avventure di Mosè: era rimasto sbalordito Egli stesso dall'improvviso e brutale omicidio dell'egiziano. Intuì che era proprio Mosè l'uomo che da tempo stava cercando, degno erede dei suoi illustri predecessori Adamo, Abele, Noè, Giacobbe.
Dio capì infatti che Mosè avrebbe sacrificato a sua perenne gloria ben altro che primogeniti, e per motivi molto più futili delle questioni di fede.
È su questa pietra angolare che il Signore decise di costruire il suo eterno e infinito edificio.

L'eccezionalità dell'avvenimento, la singolarità del carattere, la futilità del sacrificio fecero maturare nel Signore una decisione immediata e definitiva: sarebbe stato proprio Mosè a guidare il Suo popolo fuori dall'Egitto. Mosè, il prescelto, sarebbe diventato l'interlocutore privilegiato di Dio, il solo a cui il Signore si sarebbe degnato di rivolgere la parola. E lo stesso Mosè – sublime incarnazione umana dell'immagine di Dio - avrebbe ricevuto dalle sue mani le Tavole della Legge.

Mosè adulto é costretto a fuggire

(L'Antico Testamento apocrifo è un esercizio di riscrittura di alcuni dei capitoli del testo biblico. Per chi fosse interessato, si suggerisce la lettura parallela e il confronto con le scritture originali.)

Esodo, 2 : 11 - 15

Quando Mosè fu adulto, una volta andò a vedere i suoi fratelli ebrei sul luogo dei lavori forzati. Per non farsi notare dagli aguzzini egiziani che sovrintendevano alla costruzione e coordinavano il lavoro degli schiavi ebrei, Mosè decise di nascondersi dietro un albero, e stette per diverso tempo a osservare l'edificazione delle mura di fortificazione di una città.

Fu dopo qualche ora di attesa che Mosè vide con i propri occhi, poco distante dal proprio nascondiglio, un egiziano che picchiava un ebreo, uno dei suoi fratelli!

Mosè non attese un istante e reagì immediatamente: corse dall'albero in direzione dell'egiziano, si guardò intorno, e visto che non c'era nessuno, prese una grossa pietra e sorprendendolo alle spalle fracassò la testa dell'uomo. L'egiziano cadde subito a terra, privo di sensi. Per essere certo che fosse morto, Mosè prese un bastone che era stato abbandonato poco lontano e lo colpì ripetutamente, con furia cieca, su tutto il corpo. L'egiziano sussultò per qualche secondo sotto le bastonate dell'ebreo, poi spirò. Quindi Mosè seppellì il suo corpo nella sabbia.

Il giorno dopo uscì di nuovo e vide due ebrei che litigavano. Allora disse a quello che aveva torto: 'Perché maltratti il tuo compagno?'. Quello gli rispose: 'Chi ti ha nominato capo e giudice sopra di noi? Vuoi forse uccidermi come hai ucciso quell'egiziano?'. Allora Mosè ebbe paura perchè il fatto era ormai diventato noto. Anche il faraone ne venne a conoscenza e cercava Mosè per farlo morire. Mosè allora fuggì lontano e andò ad abitare nella regione di Madian.

lunedì 20 ottobre 2008

Giacobbe benedetto al posto di Esaù

(L'Antico Testamento apocrifo è un esercizio di riscrittura di alcuni dei capitoli del testo biblico. Per chi fosse interessato, si suggerisce la lettura parallela e il confronto con le scritture originali.)

Genesi, 27 : 1 - 40

In quel tempo, Isacco era ormai un vecchio e venerato patriarca. Trascorreva gran parte delle giornate seduto all'aperto, accanto all'ingresso della porta di casa. La vista molto debole non gli permetteva di cogliere altro che pallide ombre muoversi nel nulla, e l'udito, gravemente compromesso, Ma anche in queste precarie condizioni di salute, Isacco non cessò mai di avere timore di Dio e invocare incessantemente il suo sostegno. Un giorno Isacco comprese di aver perso completamente la vista. Chiamò dunque Esaù, il suo figlio primogenito, che accorse al suo capezzale.

'Figlio mio', gli disse. 'Sono qui accanto, padre mio. Parla, ti ascolto'. 'Io sono vecchio, proseguì Isacco, e posso ormai morire da un momento all'altro. Prendi dunque i tuoi attrezzi da caccia, l'arco e le frecce. Esci in campagna e ammazza un po' di selvaggina. Poi preparami un piatto saporito, come piace a me, e portamelo. Io lo mangerò e poi ti darò la mia benedizione, prima di morire'.

Nessuno dei due, nel corso della conversazione, si era accorto che dietro la porta, Rebecca, moglie di Isacco e madre del suo secondogenito, Giacobbe, aveva ascoltato con estrema attenzione quel che Isacco aveva ordinato, ormai in punto di morte, al figlio primogenito Esaù.

Fu così che, dopo che Esaù si era allontanato da casa per andare a caccia di selvaggina con cui preparare l'ultima cena per il padre ed essere poi da lui benedetto, Rebecca si mise alla ricerca disperata di suo figlio Giacobbe, sangue del suo sangue, carne della sua carne, frutto del suo parto, e lo trovò tra i rami di un ciliegio, in giardino. Disse Rebecca al figlio: 'Giacobbe, figlio mio, scendi immediatamente e raggiungi tua madre. Devo parlarti'. Giacobbe prima tirò una manciata di frutti in direzione della voce, quindi scese dall'albero e si attaccò alla sottana della madre. Rebecca si fermò, si accovaccio, mise le mani sulle spalle del proprio figlio e parlando con materna dolcezza e autorità gli disse: 'Ho udito tuo padre dire a tuo fratello Esaù: portami un po' di selvaggina e preparami un piatto saporito. Io lo mangerò; poi ti darò la benedizione alla presenza del Signore prima di morire. Ora figlio mio, ascoltami bene e fa quel che ti dico. Va' subito al gregge e prendimi due bei capretti. Io cucinerò per tuo padre un piatto di suo gusto. Lo porterai a tuo padre perché lo mangi, e così, prima di morire, darà a te la benedizione'. 'Ma mio fratello è peloso', disse Giacobbe a sua madre Rebecca. 'Io invece ho la pelle liscia. Se mio padre vorrà toccarmi scoprirà che lo sto ingannando e così attirerò su di me una maledizione e non la benedizione.' 'Cada su di me questa maledizione!', rispose a sua volta la madre. Tu, però, figlio, mio, dammi retta: va' e portami i capretti.

Giacobbe così fece: andò, prese i capretti e li portò alla madre; essa ne preparò un piatto appetitoso, secondo il gusto di suo marito. Rebecca prese quindi i vestiti più belli del maggior dei due fratelli, Esaù, e li fece indossare al minore. Con la pelle dei capretti gli ricoprì le mani e il collo. Poi gli mise tra le mani la carne e il pane che aveva preparati. Giacobbe si presentò allora dal padre e gli disse: Padre! Rispose Isacco: 'Sì, figlio mio, ma chi sei tu?' 'Io sono Esaù, il tuo primogenito', rispose Giacobbe all'anziano padre; 'ho fatto quello che mi hai comandato. Vieni ora a sederti e mangia la selvaggina, poi mi darai la benedizione'.

'Hai fatto presto a trovare la selvaggina', disse Isacco; Rispose Giacobbe: 'é il tuo Dio che me l'ha fatta incontrare'. Allora Isacco chiese al figlio se poteva avvicinarsi: voleva toccarlo per capire veramente se era Esaù o no. Giacobbe si fece più vicino, tanto che suo padre potè finalmente palparlo; la mano callosa del vecchio padre incontrò il braccio peloso del figlio, e disse: 'La voce è quella di Giacobbe, ma le braccia sono proprio quelle di Esaù!' Quindi chiese al figlio di porgerli il piatto con il pasto. 'Ora mangerò la carne', disse Isacco, 'e poi ti darò la benedizione.' Giacobbe gli servì la carne, ed egli ne mangiò; gli portò anche del vino, ed egli bevve. A quel punto il padre disse: 'avvicinati, figlio mio, e abbracciami.' Giacobbe si avvicinò e abbracciò il padre. Isacco senti l'odore dei suoi vestiti e gli diede la benedizione. Disse: 'l'odore di mio figlio è proprio come il buon odore di un campo che il Signore ha benedetto. Dio ti conceda rugiada dal cielo e terra fertile, frumento e vino in gran quantità. Ti servano i popoli, davanti a te si pieghino le nazioni. Sarai il padrone dei tuoi fratelli. Si inchineranno davanti a te i figli di tua madre. Sia maledetto chi ti maledice e benedetto chi ti benedice!'

Subito dopo aver ricevuto la benedizione Giacobbe uscì; si era appena allontanato dal padre quando suo fratello Esaù rientrò dalla caccia. Preparò anch'egli il piatto preferito del padre, lo raggiunse e gli disse: 'Padre, preparati a mangiare la selvaggina che ti ho preparato, poi mi darai la benedizione'.

'Ma chi sei tu?' gli chiese il vecchio padre. 'Sono tuo figlio Esaù, il primogenito', rispose il ragazzo. Allora Isacco fu scosso da un tremito fortissimo e disse: 'Ma allora ci è colui che ha cacciato selvaggina? Io ho già mangiato tutto quello che mi ha portato e l'ho anche benedetto. E benedetto resterà'.

Appena ebbe udite queste parole Esaù si mise a urlare, pieno di profonda amarezza. Poi disse al padre: 'Padre, benedici anche me!' Isacco rispose: 'tuo fratello è venuto qui con l'inganno e ti ha rubato la benedizione. Non per niente gli è stato dato il nome di Giacobbe!', esclamò Esaù. 'Egli infatti mi ha già ingannato due volte: prima si è impadronito dei miei diritti di primogenitura, e ora s'è preso anche la mia benedizione!' Disse il padre al figlio maggiore: 'Io ho già stabilito che Giacobbe sia il tuo padrone. Tutti i suoi fratelli dovranno servirlo. Non gli mancheranno frumento e vino. E adesso, cosa posso fare per te?' Esaù scoppio in pianto e chiese al padre: 'Ma tu, padre, hai una sola benedizione? Benedici anche me!' Allora il padre gli disse: 'Tu dovrai stabilirti lontano dalle terre fertili, lontano dalla rugiada che scende dall'alto dei cieli. Ti procurerai da vivere con la tua spada e dovrai servire tuo fratello'.

Il Signore, che aveva assistito in silenzio alla scena, comprese che Giacobbe era proprio un uomo di Dio, un uomo degno della sua fiducia, con il quale rinnovare la promessa fatta a Noè, ad Abramo e Isacco. Decise così di seguirlo e di manifestarsi a lui alla prima occasione.


Giacobbe dovette lasciare la sua casa per sfuggire alla vendetta di Esaù, che voleva ucciderlo. Partì quindi da Bersabea e si avviò verso Carran. Capitò in un posto dove passò la notte perché il sole era già tramontato. Lì prese una pietra, se la pose sotto il capo come guanciale e si coricò. Fece un sogno: una scala poggiava a terra e la sua cima raggiungeva il cielo; su di essa salivano e scendevano gli angeli di Dio. Il Signore stava innanzi e gli diceva: Io sono il Signore, il Dio di Abramo e Isacco. La terra sulla quale sei coricato la darò a te e ai tuoi discendenti: essi saranno innumerevoli come i granelli di polvere della terra. Si estenderanno ovunque: a oriente e a occidente, a settentrione e a mezzogiorno. Io sono con te, ti proteggerò dovunque andrai, poi ti ricondurrò in questa terra. Non ti abbandonerò: compirò tutto ciò che ti ho promesso.

domenica 19 ottobre 2008

Aforismi - 16

Fatti noi fummo per viver come bruti,
non per seguir virtute e canoscenza.

venerdì 17 ottobre 2008

Noè offre un sacrificio a Dio

(L'Antico Testamento apocrifo è un esercizio di riscrittura di alcuni dei capitoli del testo biblico. Per chi fosse interessato, si suggerisce la lettura parallela e il confronto con le scritture originali.)

Genesi, 8 : 20 - 22

In quel giorno il Signore, assorto nei suoi pensieri, giaceva imperturbabile su un cumulo di soffici nembi, nella parte più alta dei cieli. Il suo sguardo, profondo e tranquillo, si perdeva da Occidente a Oriente contemplando, più che qualcosa di specifico, il creato nella sua totalità.
Improvvisamente, i suoi sensi vennero risvegliati da qualcosa: un profumo intenso, deciso, lo avvolse e lo travolse; nella mente di Dio, senza che la ragione o la volontà potessero opporvisi, inconsapevolmente si materializzarono le immagini del fuoco, di carcasse di animali, di carne e sangue, di caccia e morte. Il Signore si abbandonò all'irruenta, potente sensazione: chiuse gli occhi e inspirò volontariamente, con decisione, dalle narici: la sua mente venne nuovamente sopraffatta dalle immagini e dagli odori di legna che bruciavano, di pezzi di carne che si imbrunivano, del grasso che friggeva e che rilasciava, potenza della natura, questa squisita scia odorosa. Senza potervisi opporre la sua memoria riandò al sacrificio di Abele e a quella sua primitiva, inconsapevole reazione. Dio si scosse dal torpore e dal godimento offerto dalla sequenza di sollecitazioni e rappresentazioni scatenate dal misterioso e sublime odore, e vole capire da dove questi provenisse. Fu la vista, in questo frangente, a fornirgli preziosi indizi: si rese infatti conto che era una scia di fumo proveniente dalla superficie terrestre la fonte di tanta bontà. Solo dopo aver scrutato con attenzione la zona da cui la colonna si innalzava, Dio si rese conto che alla sua base c'era l'altare costruito da Noè. Il brav'uomo, senza che alcuno gli chiedesse nulla, per suo puro spirito di iniziativa e come profondo segno di devozione e ringraziamento per aver salvato lui, la famiglia e una selezione di bestie di ogni genere dal diluvio universale, aveva eretto un altare al Signore, e sullo stesso stava immolando, a sua eterna gloria, alcuni animali puri.
Il Signore, sulle prime, sembrò non voler credere ai proprio occhi. Non voleva credere che l'uomo, sua sola e unica fonte di tormento dal primo istante della sua creazione, fosse solo lontanamente capace di fare qualcosa di gradito a Dio. È per questo motivo - per una ragionevole e motivata dose di sfiducia nei confronti dell'essere umano – che il Signore decise di ispezionare l'area più dappresso. Più si avvicinava alla base della profumatissima colonna di fumo, più aumentava la sua sorpresa: ebbene sì, era proprio l'uomo! Il solo uomo che Dio aveva scelto tra i molti, ecco chi era! Noè è il suo nome!
Dio respirò ancora una volta il fatale odore, sorrise, e volse il suo sguardo soddisfatto e benevolo verso il suo pupillo. Eccolo lì, Noè, concentrato a squartare con una lama adeguata una coppia purissima di tortore! Il Signore parve sciogliersi di fronte alla vista della creatura modellata a sua immagine e somiglianza mentre sollevava il coltello, e con mano ferma e decisa, accompagnata da uno sguardo carico di compassione, staccava con un colpo netto la testa dal corpo dell'animale. Dio, tra sé e sé, chiuse gli occhi e abbassò leggermente il capo, in segno di approvazione, e nella stessa misura apprezzò la perizia dell'uomo squartare, dividendoli in due metà equivalenti, i corpi privi di vita delle tortore. Dio sembrò poi perdersi in un primo tempo nella contemplazione del rivolo di sangue che dal tavolo di marmo cadeva, con gocce pesanti, sulla terra polverosa, raggrumandosi; poi, nell'osservazione minuziosa delle interiora ancora pulsanti e brillanti degli animali destinati al divino sacrificio.
Dio notò anche la coppia di tori, anch'essi scelti con scrupolo da Noè tra i più puri della specie, legati al giogo a qualche metro dall'altare; comprese che sarebbero stati sacrificati dopo le tortore. Il Signore avrebbe voluto fortemente assistere allo squartamento dei tori, avrebbe desiderato con tutto se stesso sovrintendere al sacro bagno di sangue, ma sapeva bene che se si fosse fermato ancora qui in basso, accanto al suo prediletto, avrebbe perso il meglio della fragranza prodotta dalle tortore dopo qualche minuto che sono sulla griglia.
Mentre Noè, con gesti decisi e determinati, si apprestava a purificare le tortore con il fuoco, il Signore percorse a ritroso, istantaneamente, lo spazio che lo separava dalla nube, adagiò il corpo nella posizione a lui più congegnale e si apprestò, ancora una volta, a farsi invadere dall'estatico aroma.
Noè gettò quindi le tortore sul fuoco: la carne tosto mutò colore, la pelle si rapprese, il grasso colò e sfrigolò sulla piastra. Lassù, tra le nubi, Dio stava vivendo una delle esperienze più intense di tutta l'eternità. Il godimento giunse a un tale limite che la sua felicità, a un tratto, ruppe gli argini e dilagò dicendo:
'Non maledirò mai più il mondo a causa dell'uomo. È vero che fin dalla giovinezza egli ha in cuor suo solo inclinazioni malvagie. Tuttavia – e la sua mente, nel frattempo, e tutto il suo corpo venivano avvolti e stregati dall'odore e dal ricordo del sacrificio – io non distruggerò mai più tutti gli esseri viventi come ho fatto questa volta. Finché durerà il mondo, semina e mietitura, caldo e freddo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno mai.

Origine dei Moabiti e degli Ammoniti

(L'Antico Testamento apocrifo è un esercizio di riscrittura di alcuni dei capitoli del testo biblico. Per chi fosse interessato, si suggerisce la lettura parallela e il confronto con le scritture originali.)

Genesi, 19 : 30 -38

Nel distruggere le città di Sodoma e Gomorra e tutti i loro abitanti, l'intera pianura e la vegetazione del territorio con una pioggia di zolfo e fuoco, il Signore non si dimenticò di Abramo, e fu clemente anche con suo nipote Lot.

Su insistente preghiera dello stesso Lot, Dio fece in modo che egli raggiungesse la piccola città di Zoar, poco distante da Sodoma e Gomorra. Lì il nipote di Abramo trovò rifugio dalla furia del Signore.

Un giorno, Lot decise di lasciare Zoar: era terrorizzato dall'idea di essere tuttora così prossimo alle città di Sodoma e Gomorra, e temeva ancora la vendetta di Dio. Fu così che decise di stabilirsi in una grotta sulla montagna, in compagnia delle due figlie.

I giorni trascorrevano in attesa di qualcosa di indefinibile, fino a quando, allontanatosi Lot per andare a raccogliere legna per alimentare il fuoco, la maggiore delle sorelle disse alla minore, che le sedeva accanto, intenta a rammendare un panno: 'Nostro padre è vecchio, e qui intorno non ci sono uomini per sposarci come si fa dappertutto. Vieni, facciamo bere nostro padre, e passiamo la notte con lui: così avremo figli da nostro padre.'

La sorella minore si rallegrò della proposta della sorella maggiore, e accettò entusiasta di l'idea di avere un rapporto con il proprio padre e generare, grazie al suo seme, un figlio. Anche la figlia maggiore non vedeva l'ora di giacere con il proprio padre per poter finalmente procreare e compiere i proprio destino di donna, e sapeva anche che per anzianità sarebbe stata lei la prima a goderne.
Si decisero così ad agire la sera stessa: fin dalle prime ore del pomeriggio prepararono insieme il piatto preferito del padre, della selvaggina arrostita sul fuoco; servirono quindi la cena circondandolo di mille cure. Fecero particolare attenzione a colmare di vino il bicchiere del vecchio padre ogniqualvolta Lot lo terminava, e lo invitarono poi a celebrare diversi brindisi in onore del Signore che li aveva salvaguardati da una morte spaventosa.
Al termine della cena, Lot era ubriaco; in stato di quasi totale incoscienza venne adagiato con grandi sforzi sul suo giaciglio dalle due premurose figlie. Quindi si addormentò di un sonno buio e pesante.

Il sonno di Lot era agitato. Nel corso della notte – senza poter distinguere se quello era sogno o realtà – sentì prima un profumo intenso, e poi percepì una ciocca di capelli che gli sfiorava una spalla. Poi intuì che c'era qualcosa che scivolava dal suo ventre, lentamente, sempre più in basso, fino a quando, a un certo punto, sentì il suo membro eretto non più libero ma colmato, compreso, avviluppato da una fonte di calore che lo conteneva, lo ospitava. Quindi gli parve di percepire una sorta di anello che saliva e scendeva lungo il membro, seguendo un ritmo variabile: prima crescenti, sempre più veloci, poi, al momento opportuno, rallentavano decrescendo, e così via. A un certo punto, il ritmo non cessava di aumentare e di farsi deciso, insistente, e a Lot sembrò che stesse capitando qualcosa di simile a un'esplosione: una parte di sè, gli pareva, stava, in conseguenza del piacere estremo, abbandonando il suo corpo. Dopo qualche tempo in cui era certo di aver dormito, a Lot sembrò che l'anello lentamente salisse verso l'alto, fino a quando sentì con terribile sconforto il suo membro di nuovo libero, lasciato a se stesso. Quindi il sonno profondo si reimpossessò di lui.

Al mattino Lot si svegliò di buonumore, tanto che disse tra sé: 'sebbene io sia un povero vecchio, Dio è benevolo nei miei confronti e mi concede ancora, in sogno, qualche inaspettato piacere. Oggi offrirò un sacrificio completo al Signore in segno di ringraziamento.'
Mentre Lot era occupato a trovare qualche animale puro nei paraggi della grotta da sacrificare al Signore, la sorella maggiore disse alla minore: la notte scorsa sono andata io da mio padre. Ubriachiamolo di nuovo e questa notte va' tu a dormire con lui: così avremo figli da nostro padre.

Quando il padre rientrò dal sacrificio era ormai ora di cena, e le figlie prepararono al padre una minestra di lenticchie, e fecero delle focacce di pane non lievitato. Il padre gradì molto sia il cibo che il vino, che le fanciulle erano riuscite a procurarsi, a rischio della loro stessa vita, allontanandosi da casa alla sua insaputa.

Terminata la cena, Lot era nuovamente ubriaco, e cadde immediatamente in un sonno pesante, agitato e rumoroso. La figlia maggiore disse alla minore: 'questa sera sembra sia davvero impossibile riuscire a spostarlo dalla sedia per farlo stendere sul giaciglio. È meglio rinunciare.' La sorella minore non aveva nessuna intenzione di rinunciare, si era preparata da tempo per l'occasione, e disse sprezzante alla sorella che avrebbe trovato il modo di arrangiarsi.

Scostò il padre dal tavolo, lo spogliò per quanto era possibile, poi si concentro sul suo scopo, il suo membro. Le venne in mente di sfiorarlo con la lingua, e così fece, e quello reagì al contatto con la pelle umida e calda. La ragazza, aiutata dalla sorella maggiore che era rimasta lì accanto, si tolse la tunica e gli altri miseri capi di abbigliamento che indossava; sciolse quindi i capelli raccolti in una ciocca, si sedette in grembo al vecchio padre incosciente e ne accolse il sesso turgido tra le gambe. A Lot sembrò di rivivere, amplificato, il godimento della notte precedente: ricominciava il movimento dell'anello, ora calmo, poi sempre più deciso, e per la seconda volta consecutiva Lot, portato al limite del piacere tollerabile da un uomo della sua età, ebbe la sensazione che la sua stessa essenza erompesse fuori dal suo corpo verso qualcosa di caldo e accogliente. Nulla poi turbò più il suo sonno fino al mattino successivo.

Quando aprì gli occhi, Lot si rese conto di essersi addormentato seduto su una panca di legno. Osservò prima la caraffa del vino vuota, poi il suo sguardo si posò sulle giovani figlie, che dormivano ancora profondamente, e con dolcezza le benedisse. Ripensò quindi alle due notti appena trascorse, sorrise impercettibilmente e si risolse a ringraziare anche oggi il Signore per gli inaspettati doni che gli aveva inviato.

Dopo qualche tempo, entrambe le sorelle si accorsero con gioia di essere rimaste incinte del loro padre, a cui non svelarono mai nulla. La maggiore partorì un figlio che chiamò Moab: egli è il capostipite degli odierni Moabiti. Anche la sorella minore partorì un figlio, che chiamò Ben-Ammi: egli è capostipite degli odierni Ammoniti. I Moabiti abitano la regione a est del Mar Morto; gli Ammoniti a sud del fiume Giordano. Entrambi i popoli vivono e prosperano sotto lo sguardo benevolo del Signore.

La Torre di Babele

(L'Antico Testamento apocrifo è un esercizio di riscrittura di alcuni dei capitoli del testo biblico. Per chi fosse interessato, si suggerisce la lettura parallela e il confronto con le scritture originali.)

Genesi, 11 - 1 : 8

Dopo aver seguito con sguardo accondiscendente Noè - il prescelto, colui-che-ha-versato-sangue-nel-nome-di-Dio, colui che per primo, di sua volontà, aveva fatto respirare al Signore il seducente odore del sacrificio di un innocente a gloria e onore del suo nome - raccogliere in più ciotole il sangue dei sacrifici, Dio disse tra sé e sé: 'Ora che ho promesso all'uomo di non sterminarlo mai più, ora che gli ho dato il dominio di tutti gli animali, ora che l'ho invitato a essere fecondo e a popolare la terra, mi metterò da parte per qualche tempo, e osserverò da lontano la sua evoluzione.'

Da quel giorno, Noè ebbe tre figli: Sem, Cam e Iafet. Ciascuno ebbe a sua volta figli, che a loro volta diedero alla luce altri figli, e così per generazioni: da Noè a Sem, da Sem a Arpacsad, da Arpacsad a Selach, da Selach a Eber, e così via, per ogni figlio e figlio del figlio e fratello del fratello.
L'umanità per lungo tempo crebbe e iniziò a distribuirsi nelle zone più fertili delle terre emerse. Per meglio collaborare e cooperare, in quel tempo gli esseri umani stabilirono di parlare la stessa lingua e usare le stesse parole. In questo modo, non si sarebbero più fraintesi l'un l'altro, e qualsiasi cosa uno avesse detto, tutti l'avrebbero compresa senza fallo. Fu questo un enorme progresso per la creatura originata a immagine e somiglianza di Dio, che permise in quel tempo esistenze floride, feconde e costruttive.

Fu così che un giorno, nel corso delle migrazioni da una terra all'altra, un gruppo di uomini migrati dall'Oriente si trovò nella pianura di Senaar e vi si stabilì.
Rinvigoriti da una cena sana e abbondante, da diversi bicchieri di buon vino a da un sonno profondo e sereno, la mattina seguente gli uomini, una volta svegliatisi, si guardarono reciprocamente negli occhi e si dissero l'un l'altro: 'Forza! Prepariamoci mattoni e cuociamoli al fuoco!'. Subito alcuni, travolti dall'entusiasmo e dalla voglia di fare, presero a modellare mattoni, mentre altri si occupavano del bitume, che sarebbe stato usato al posto della calce. Un altro uomo ancora, sollecitato dall'euforia con cui era stata accolta la prima proposta, si alzò in piedi e disse davanti a tutta l'assemblea, con voce ferma e decisa: 'Forza! Costruiamoci una città! Faremo una torre alta fino al cielo! Così diventeremo famosi e non saremo dispersi in ogni parte del mondo!'
Tutti gli uomini risposero con rinnovato vigore all'appello, e la costruzione della torre con i nuovi materiali cominciò all'istante. Parlando la stessa lingua e utilizzando le stesse parole, la costruzione procedeva molto rapidamente. Era un continuo rimbalzare di voci, da una parte all'altra del cantiere: ci si intendeva all'istante. Ogni domanda riceveva l'adeguata risposta, e ogni parola dava il là a un'azione. Non era necessario ripetere le cose due volte, né qualcuno poteva affermare di non aver capito.

In quel tempo Dio, isolatosi in un zona del creato solo a Lui nota, stava da tempo immemore immerso in profonde meditazioni quando un brusio sommesso, proveniente da qualche angolo remoto dell'universo, lo distrasse e lo stappò all'improvviso dalle sue riflessioni. Furente, il Signore provò a concentrarsi nuovamente e a riannodare il filo dei pensieri, ma ormai la sua mente era fissata sul brusio, e più si concentrava su quel suono, più il suono stesso pareva accrescere il suo volume, sino a quando non divenne intollerabile. Allora il Signore si scosse definitivamente dalla meditazione, e istintivamente gettò uno sguardo verso la terra. Fu solo a questo punto che vide sbucare vergognosamente tra le nubi l'orrenda costruzione, frutto dell'umana volontà. 'Ecco, l'uomo nuovamente mi tormenta! Basta lasciargli un centimetro di spazio che me lo ritrovo quasi alla mia altezza! Essere sfrontato e irriconoscente! Non cesserò mai di pentirmi e maledire l'universo intero per questa mia folle, insensata creatura!'
Stava per scagliarsi con tutta la furia della sua vendetta sull'immondo ammasso di miserabili esseri quando un pensiero folgorante lo trattenne: lui, il Signore, aveva da poco stabilito un patto, un'alleanza con quella vergognosa massa di creature. Rifletté quindi sul fatto che non poteva più permettersi di sterminare l'essere umano: ne sarebbe andato del suo onore. La promessa a Noè era stata fatta, e non si poteva tornare indietro.
Fu soppesando questi argomenti che nella mente di Dio prese forma la soluzione.
Si avvicinò nemmeno troppo alla torre, comprese nel suo sguardo tutti gli esseri umani, e disse: 'Ecco, tutti quanti formano un sol popolo e parlano la stessa lingua. E questo non è che il principio delle loro imprese! D'ora in poi saranno in grado di fare tutto quello che vogliono! Andrò a confondere la loro lingua: così non potranno più capirsi tra loro.'

Le azioni di Dio si compirono così come furono enunciate. La costruzione della torre - che da quel giorno prese il nome di Babele, confusione - tosto si interruppe, e da quel lontano giorno, gli uomini vagano sulla terra senza avere più la possibilità di intendersi l'un l'altro. Si interrogano inutilmente a vicenda, ma senza comprendere le domande; e se qualcuno pensa di avere una risposta, non c'è nessuno che ne sappia cogliere il senso.

Così Dio impedì all'uomo per l'eternità di essere un solo popolo e parlare la stessa lingua.

Esaù cede i diritti di primogenitura

(L'Antico Testamento apocrifo è un esercizio di riscrittura di alcuni dei capitoli del testo biblico. Per chi fosse interessato, si suggerisce la lettura parallela e il confronto con le scritture originali.)

Genesi, 25 : 29 - 34

In quel giorno, Esaù, figlio primogenito di Isacco, protetto del Signore, si era trattenuto nelle campagne più a lungo del solito. Era infatti la stagione del raccolto, ed Esaù, stremato dalla fatica, stava terminando di raccogliere i frutti della mietitura nel granaio. Dopo aver osservato compiaciuto il risultato dei propri sforzi, si risolse finalmente ad avviarsi verso casa.
Esaù giunse molto tardi alla propria dimora. Il sole si era rifugiato ormai da tempo dietro le montagne, e la volta del cielo, di un nero profondo, era ammantato da un'infinità di stelle.

Quando entrò in casa, Esaù assaporò con gioia il calore del focolare, e il profumo di minestra che suo fratello Giacobbe, secondogenito di suo padre Isacco, stava governando sul fuoco.
Esaù senti i muscoli del proprio corpo perdere calore e tensione, e si abbandonò esausto su una panca, accanto al camino.
Con la stanchezza sopraggiunse anche, prorompente, la fame; fu così Esaù si rivolse al fratello e gli disse:
'Giacobbe, fratello mio, la giornata nei campi è stata particolarmente dura, oggi. Sono sfinito! Ti prego, dammi da mangiare un po' di quella minestra.'
Giacobbe, che aveva trascorso la giornata a rincorrere le galline e a ruzzolare con i cani nell'ampio cortile davanti a casa, e si era nascosto per ore tra i cespugli, nei campi, a osservare il fratello maggiore che mieteva le messi, stava in quel momento colmando di minestra la propria ciotola. Senza volgere lo sguardo verso il fratello, e dopo un lungo silenzio, Giacobbe si decise a rispondere al primogenito, Esaù, stremato dagli sforzi e divorato dalla fame:
'Ti do la minestra, solo se mi cedi prima i diritti di primogenitura'.
Esaù, con la poca energia che gli era rimasta in corpo, alimentata dalla fame e dalla rabbia per l'offensiva risposta del fratello, esclamò:
'Va bene! Io sto per morire di fame! Che me ne faccio dei miei diritti di primogenito?'
Giacobbe a questo punto si voltò versò il fratello, e guardandolo dritto negli occhi, gridò:
'Giuramelo!'
Esaù bevve fino in fondo il calice dell'amarezza. Quindi, fissando le travi in legno del pavimento, si limitò a replicare, con un filo di voce:
'Te lo giuro'.
Soltanto allora Giacobbe si decise a concedere al fratello un mestolo scarso di minestra e un tozzo di pane raffermo. Nel silenzio più assoluto, Esaù mangiò e bevve. Poi si alzò da tavola e se ne andò.

Il Signore, che senza dare segni tangibili della propria presenza aveva assistito all'intera scena, guardò con favore il comportamento tenuto nella circostanza da Giacobbe, e disse fra sè:
'Giacobbe, figlio del mio prediletto Isacco, sta seguendo alla pari del padre la strada da me segnata. Lo terrò d'occhio, per poter valutare in altre circostanze la sua fedeltà ai miei principi. Se non tradirà le mie aspettative, sarà con lui che rinnoverò la promessa fatta a mio tempo a Noè e Abramo.'
Fu così che Dio iniziò a seguire con compiacimento e speranza la vita e le azioni del figlio secondogenito di Isacco, Giacobbe.