martedì 11 gennaio 2011

ORA ET LABORA

Oggi ho un colloquio importante.

Indosso t-shirt bianca, gilet nero girocollo, giacca nera, jeans e Dr. Martens. Il portatile è nello zaino.

Cercano un responsabile della comunicazione. Cercano me, cazzo. Laurea in discipline della comunicazione, esperienza triennale in grandi aziende nella gestione della corporate identity, ottima padronanza dell’inglese scritto e parlato, conoscenza del pacchetto Office, nozioni di teologia e predisposizione ai rapporti con un target molto giovane, dai 6 ai 18 anni. Profilo particolare ma ci sto dentro. Gliela posso raccontare.

Il taxi mi scarica all’incrocio di due vie di una zona residenziale del centro. Sono dieci anni che non metto piede da queste parti. Ma mi fa ancora più effetto entrare dalla porticina di ferro dell’Oratorio dei Salesiani. L’ho attraversata per almeno vent’anni, ogni pomeriggio.

Mi accoglie una donna ben acconcia con una cartellina in una mano e un caffè nell’altra. Mi servono diversi secondi per riconoscere in lei la ragazza che più di dieci anni fa si occupava delle pulizie dell’Oratorio. La donna guarda distrattamente l’orologio e mi comunica che sarò costretto ad attendere. Il responsabile, Don Claudio, è ancora occupato. Ne approfitto e mi guardo intorno. È tutto miseramente più piccolo. Il campo da calcio in asfalto oltre la rete di metallo è dimezzato. Una delle metà campo è occupata da un cantiere. E il campo da basket? È laggiù in fondo, sulla sinistra. I ragazzini palleggiano su cubetti di porfido sconnessi. Vado a dare un’occhiata nel sottoscala. Là sotto, qualche anno addietro, i Salesiani mi hanno ospitato un paio d’anni. Oggi c’è una sala musica insonorizzata e riscaldata. Casse Bose. Amplificatori. Mixer. Un pc.

Torno indietro. Avevo deciso a priori di non pormi domande stupide, e così farò. Vorrei solo capire, ma non ho nemmeno il tempo di finire di pensare la frase che mi trovo nell’atrio dell’Oratorio, nella mano la mano del responsabile, Don Claudio, già, me lo ricordo, gli ultimi Don che avevano avuto le redini della baracca, ai miei tempi, non erano durati granchè.

‘Dottor Scali, Alessandro’, mi guida il Don, ‘l’oratorio è un’azienda. L’aveva intuito Don Bosco, e noi oggi portiamo a compimento la sua opera. È la teoria dell’enterteinment cattolico, nulla di nuovo per te, credo. Guarda tu stesso: stiamo riconvertendo. Un sito di archeologia urbana e religiosa rifiorisce lentamente, giorno dopo giorno. Per ogni chicco di marketing seminato nell’asfalto – per usare una metafora evangelica - fiorisce un euro nella cassa. Faremo parcheggi dove c’erano campi da calcio troppo grandi per i pochi ragazzetti. E poi, i piccoli vogliono i videogiochi, la Coca Cola, le patatine, Sky? Noi apriamo un bel ristoro. Se hanno la tessera – costa solo venticinque euro l’anno – noi gli applichiamo uno sconto sacrosanto, in caso contrario rientriamo – in quanto a fascia di prezzi - nella media del mercato. Ma ci stiamo perdendo in dettagli’, chiosa Don Claudio. ‘Il vero tesoro è un altro’.

Si materializza al nostro fianco la donna. È lei che ha le chiavi.

Saliamo tutti e tre le scale. Entro e fatico a riconoscere il vecchio teatro. Non ne è rimasto nulla. Poltrone ergonomiche, ampie, comodissime. Insonorizzazione totale. Uscite a norma. Un impianto luci impressionante. Una concentrazione di tecnologie che ho visto solo negli studios americani.

‘Le compagnie se lo contendono’, non riesce a trattenere la donna. ‘Ogni sera c’è qualcosa. Abbiamo avuto anche le autorità’. ‘L’investimento sembra rendere’, sottolineo. ‘Certo’, dice la donna. ‘Dai un’occhiata ai conti’.

‘Vedi’, dice la donna, ‘ormai abbiamo rapporti a 360 gradi, non più solo con il nostro target diretto – i ragazzi che frequantano il village - ma con istituzioni, imprese, compagnie, società di servizi. Dobbiamo mettere in discussione la nostra immagine per costruirne una nuova più forte, che ci distingua dalla concorrenza’.

Ben detto. È l’occasione per mostrare loro il mio curriculum. Il notebook che si accende fa sempre il suo effetto. Il Don, per contro, mi mostra il suo tablet, ‘che mi posso portare anche sull’altare’, sottolinea.

Convengono con me che ci siamo trovati. La persona giusta al posto giusto. Mi lascio scappare qualche termine tecnico come vision, logo, payoff, pierre. La voce retribuzione viene affrontata con noncuranza e in un batter d’ali mi ritrovo con un terzo dell’ormai passato stipendio in più al mese.

Sono disteso. Scherzo col Don: ‘non ci soni crocifissi, in giro’. ‘Una professoressa marocchina’, risponde, ‘si è lamentata. Per noi non cambiava un granché’. ‘E le nozioni di teologia?’, gli domando. ‘Quelle’, mi dice, ‘le ha volute mettere per forza nel questionario l’agenzia che preseleziona i candidati’.

Ci stringiamo la mano calorosamente.

‘Lunedì ti daremo i ticket restaurant’, sembra concludere la donna.

‘Sembra la parabola del figliol prodigo’, aggiunge Don Claudio. ‘Ben tornato a casa, figliolo’.

‘Amen’, rispondo io.