martedì 2 novembre 2010

Sulle potenzialità e i limiti dei corsi serali

Forse ogni volta che un essere umano plasma un pezzo di argilla rivive inconsciamente le emozioni provate da Dio all’atto della creazione dell’uomo. Ricondurre la materia dal caos all’ordine; trasformare un’idea, una rappresentazione, un modello mentale in un oggetto fisico; plasmare a proprio piacimento una massa informe per infonderle vita: mentre affondava finalmente le mani nell’argilla, Eva era pervasa da un’infinità di sensazioni e intuizioni.
Osservandola fino quasi a penetrarne la struttura, era smarrita e allo stesso tempo estasiata al pensiero che di tutte le forme che quella porzione di materia conteneva potenzialmente in sé, una sola sarebbe diventata manifestazione concreta e inequivocabile della sua volontà.
Ma se alcune impressioni, sebbene molto intense, erano per un verso riconducibile al lato razionale e stimolavano costantemente la riflessione, l’astrazione, il ragionamento, per l’altro il contatto sensuale, morbido e avvolgente delle mani con l’argilla, i movimenti lenti e misurati, la docilità di quella straordinaria insignificante massa nel reagire alla pressione delle sue dita le trasmettevano, fisicamente, una sensazione di equilibrio e serenità, di armonia interiore, di calma attiva e propositiva.
Aveva passato ore a decidere quale forma attribuire a quella materia che ne era priva. Al contrario degli altri iscritti al corso – meno entusiasti di lei, ma che al termine della prima lezione avevano prodotto una tale quantità di piccoli e semplici oggetti da far invidia a un mercatino d’antiquariato – lei aveva provato, sì, ad abbozzare qualcosa, ma nulla sembrava, se così si può dire, adeguato. Sentivo il desiderio - avrebbe poi raccontato - o per meglio dire la necessità, l’obbligo di fare anche solo un piccolo passo in più, uno sforzo seppur minimo per realizzare qualcosa che non fosse la solita scontata idea che viene in mente a chiunque si ritrovi per la prima volta con un pezzo di argilla in mano. Fu nel corso della terza lezione che le sue mani incominciarono a plasmare una forma che subito non riuscì a cogliere nel suo complesso. Ma aveva iniziato. Fu come un blackout attivo e creativo, nel corso del quale pur essendo impossibilitati a percepire ciò che si sta facendo, nulla ci impedisce di agire. Quando però un bel momento riemerse improvvisamente alla luce la lezione stava per finire, era tardi, doveva uscire, e fu come se di colpo un soldato le avesse strappato dalle braccia la sua neonata creatura.

Uscì dal portone disperata. Conoscevo quell’espressione che sintetizza sul medesimo volto il dolore del tormento e la gioia sublime dell’estasi creativa. Venendomi incontro, si affrettò a spiegarmi, aggrappandosi al mio avanbraccio, che aveva gettato – nel senso letterale del termine - le basi della sua idea. Improvvisamente tutto aveva acquisito un senso. Aveva cominciato a creare. Sai cosa ho iniziato a fare? Un vaso, disse. Un vaso dalle dimensioni straordinarie. Non immaginarti adesso chissà cosa, proseguì. Diciamo che si tratta di un vaso fuori dal comune, insomma, per darti un riferimento, delle proporzioni di una persona, né alta né bassa, né magra né grassa. Non pensare a una forma umana vera e propria, sarà un vaso a forma di vaso, ma dalle proporzioni umane.
Ci allontanammo lasciandoci sulla destra un rumoroso e numeroso capannello di partecipanti intenti a scambiarsi i manufatti prodotti nel corso della serata: si consumavano nei sorrisi e nei complimenti reciproci. I nostri sguardi non a caso si incontrarono, e non potemmo fare a meno di sorridere anche noi di quegli ingenui gattini azzurri, delle piccole mele, delle semplici piattini decorati con motivi floreali che con un eufemismo definimmo naif.
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Se paragonate alle asperità delle prime tre, le lezioni successive furono una lunga, impercettibile discesa. Ora dopo ora, lezione dopo lezione, pensava Eva, un piccolo, grezzo, semplice pezzo di argilla muta la sua natura per entrare a fare parte di un tutto, un complesso armonioso da me ordinato e strutturato. Tranquillamente ma inesorabilmente, il vaso cresceva. Le cresceva intorno. Ci furono lunghe ore in cui si trovò lei stessa all’interno del vaso per meglio modellarlo, quasi a volersi far contenere dal contenitore da lei stessa creato. E vi furono altri momenti nei quali quel vaso, idelmente, sembrava prestarsi davvero a metaforico contenitore di tutto ciò che la circondava.
Ogni volta che le mie mani, raccontava Eva, per quelle tre ore alla settimana affondano nell’argilla e sembrano mettersi a lavorare da sole, indipendentemente dalla mia coscienza ma malgrado tutto sotto l’impulso della mia volontà, il tempo smette di scorrere e mi sembra di trovarmi in un eterno presente in cui ogni evento non segue né precede l’altro, ma gli si affianca.
Fu forse a causa di questo scarto temporale che non aveva fatto in tempo a completare metà del vaso quando il corso, inesorabilmente, finì.