mercoledì 5 dicembre 2007

Aforismi - 15

Chi conosce gli altri è saggio.
Chi conosce se stesso è illuminato.
Chi non conosce nulla è Dio.

Aforismi - 14

Perché creare un essere che prendendo coscienza di sé comprende infine che il suo fine ultimo è la sua fine?

Aforismi - 13

In volo da Roma a Torino, stavo prendendo appunti sulla memoria.
Ho dimenticato i fogli sull’aereo.

Aforismi - 12

La memoria è quella facoltà che ci consente di dimenticare chi siamo realmente.

Aforismi - 11

Abbiamo la bizzarrra abitudine di coniare termini estremamente precisi per tutto ciò che è privo di significato.

domenica 2 dicembre 2007

Aforismi - 10

Non condivido l’opinione di nessuno, solo la mia e quella di chiunque altro.

Aforismi - 9

Il battito d’ali di una farfalla qui provoca un terremoto dall’altra parte del mondo. Ciascuna azione provoca tutte le altre, a tal punto che nulla provoca niente, e cessa la provocazione.

Aforismi - 8

La verità è un puzzle di infiniti pezzi, dove nessun pezzo combacia con l’altro.

sabato 24 novembre 2007

Make war not love - 3

Mi sorprendo io stesso del disgusto che provo a sentir parlare di pacifismo. Eppure, non ho mai agito in modo violento (assurdità: diciamo che la maggior parte delle mie azioni e reazioni non sono violente), né sono un guerrafondaio (al contrario: obiettore di coscienza), ma l’idea del pacifismo, o di movimenti no war mi fa rabbrividire e mi provoca un senso di nausea.

You may say I’m a dreamer, maybe I’m just the only one.
Eppure non riesco a comprendere come persone dotate di una minima dose di buonsenso possano anche solo immaginare un mondo dove ogni traccia della guerra è stata cancellata. È un pensiero che offende la natura e la ragione, la storia e la realtà: mai esisterà sulla faccia della terra anche solo un instante senza guerra, e nemmeno avrebbe ragione di esistere. Tra l’altro l’evidenza di questa affermazione è disarmante, e mi si perdoni il gioco di parole. Non bisogna essere filosofi, storici, scienziati o uomini di cultura per constatarlo.

Ma come: proprio noi, con alle spalle secoli e secoli di testimonianze, dati e informazioni; proprio noi, costantemente aggiornati su tutto ciò che avviene in ogni angolo del mondo, abbiamo la sfacciataggine di scendere in strada per rivendicare una vita no war?

Le magnifiche sorti e progressive - 12

Non è senza un certo compiacimento che ciascuno di noi considera il progressivo allungarsi della vita media dell’essere umano.
Eppure, a guardar bene, la vita, oggi, è davvero più lunga? No: è la sopravvivenza che si protrae. La sola parte dell’esistenza che si prolunga è la vecchiaia: si rallenta la degenerazione senza per questo eliminarla.
Un conto, infatti, sarebbe frenare la crescita; un altro è rallentare l’invecchiamento. Prolunghiamo il peggio, per dirla in altre parole. All’interno delle nostre società ottuagenarie, gli individui non possono far altro che rispecchiarsi l’uno nell’altro, e offrirsi vicendevolmente come relitti alla deriva, relitti che sì, forse ci metteranno un po’ di tempo in più ad innabissarsi, ma che in ogni caso non sfuggiranno a questo inevitabile destino.

Noi per primi siamo dei rottami, e ovunque ci voltiamo non vediamo altro che vecchi catorci che si nascondono dietro una parossistica attività fisica. È quantomeno paradossale che le società contemporanee dichiarino di voler essere sempre più giovani, veloci ed efficienti quando fisicamente e mentalmente sono sempre più vecchie e dunque incapaci di rispondere agli standard di efficienza che esse stesse si impongono.

È vero, andiamo in palestra. È vero, facciamo jogging, o pedaliamo. Ma qualcuno si è mai preso la briga di osservare con attenzione chi pratica attività fisica? Nessuno sembra prendere coscienza del fatto che sempre meno bambini, adolescenti e giovani praticano sport, mentre quello che faticosamente si muove nei parchi e nelle palestre è un mondo di uomini di mezza età o pensionati, non certo di ragazzini. Non essere umani acerbi, dunque, ma frutti che hanno oltrepassato il confine della maturità e cercano semplicemente di ritardare o nascondere l’evidente decadimento, la marcescenza.

Ebbene sì: a sostenere sulle proprie spalle le progredite società occidentali sono da un lato giovani obesi, inetti, incapaci di qualsiasi movimento, sforzo o azione. Una generazione di sedentari, di masse debordanti di carne umana stordite e inebetite dal passivo esercizio della scatola televisiva, in ogni forma e derivato. Dall’altro abbiamo una proliferante massa di anziani, dei quali alcuni conservano qualche barlume di efficilenza fisica e lucidità intellettuale, mentre la maggior parte sopravvive o tira a campare, chi su una sedia a rotelle, chi senza la possibilità di muoversi, parlare o pensare, e così via.


mercoledì 27 giugno 2007

Aforismi - 7

Essere liberi è il modo più facile per non sapere dove andare.

lunedì 25 giugno 2007

Dialogo tra Platone e Dostoevskij - cap. 1

Platone: Non è un bel vedere.
Dostoevskij: A cosa ti riferisci?
Platone: A quello che abbiamo davanti agli occhi, Fedor, la Terra. Da qui il panorama mette i brividi.
Dostoevskij: Dici?
Platone: Osserva tu stesso. Ebbene?
Dostoevskij: Non ci trovo nulla di disgustoso. Mi sembra tutto terribilmente normale.
Platone: dimenticavo il tuo sano cinismo. Evidentemente non ti interessa il destino del genere umano.
Dostoevskij: Sai bene che i cinici erano altri, Platone. Piuttosto, dimmi, cosa vedi che non vedo io?
Platone: A dirti il vero è difficile distinguere qualcosa di preciso in tale confusione. Posso confessarti una cosa? Mentre stavo per arrivare qui la prima volta pensavo tra me e me alla vista che entro breve mi si sarebbe offerta allo sguardo. Da questa posizione privilegiata come si sarebbe presentata la Terra? Vista così, da lontano, che cosa vi avrei scorto? Immaginavo di vedere gli uomini come formiche muoversi sulla sua superficie, fantasticavo su grandi masse di esseri umani organizzati in gruppi ordinati, ciascuno col proprio compito e tutti nella stessa direzione. Immaginavo flussi ordinati e costanti, immaginavo formicai sempre più grandi, semplici e funzionali…
Dostoevskij: … e poi finalmente sei arrivato qui.
Platone: Già. Un eterno caos, dal primo istante in cui i miei occhi hanno puntato in quella direzione. Ma ti dirò di più: se ci si limita a guardare distrattamente, se si butta l’occhio, può sembrare che effettivamente un ordine ci sia. Prendi quell’uomo di fronte a noi: ha voltato per un attimo la testa e ha guardato la terra. Pensi abbia avuto una cattiva impressione o che, al pari di me, abbia provato disgusto? Niente di tutto ciò. Osservalo: non ha fatto una piega, non si è scomposto. Ma se invece fai come me e ti siedi qui ore e ore e osservi, e se resti qui un giorno, poi un altro, e un altro ancora, la vista si fa più acuta fino a quando non si può far altro che constatare che l’ordine è soltanto apparente, e a ben vedere regna il caos.
Dostoevskij: Ah davvero?
Platone: Non mi credi, Fedor? Allora se me lo permetti, per spiegarti meglio ciò che osservo, prenderò ad esempio i sorprendenti risultati ottenuti nel corso di recenti esperimenti di fisica quantistica. Cercherò di semplificare al massimo, perché la mia competenza in questo campo è alquanto limitata.
Dostoevskij: Prosegui, Platone. Cosa c’è di meglio che dialogare con una persona intelligente?
Platone: Bene. Spero che i fisici perdonino la mia semplificazione. Prendiamo ad esempio un cannone che spara un proiettile con l’obiettivo di colpire un bersaglio. Ora, se noi prendiamo in considerazione il proiettile, è possibile calcolarne in ogni istante la velocità e la posizione. Mi segui?
Dostoevskij: Fin qui tutto chiaro.
Platone: Se invece considerariamo la palla di cannone non come unità ma come un insieme di particelle infinitamente piccole, e proviamo a determinare la posizione di una delle particelle e la velocità alla quale si sta muovendo insieme a tutte le altre, ci troviamo di fronte a un fatto quantomeno sconcertante, è cioè che della suddetta infinitesimale particella non è possibile stabilire né la posizione precisa, tantomeno la velocità alla quale si muove: è il cosiddetto principio di indeterminazione. Pensa un po’, Fedor: il proiettile si muove in una direzione specifica, misurabile, replicabile, segue cioè una traiettoria in uno spazio e per un certo tempo; le particelle, invece, prese una ad una, come dire, vanno per proprio conto, o meglio, hanno una posizione in potenza, come direbbe il buon Aristotele, ma non in atto.
Dostoevskij: Curioso.
Platone: Vero? Anch’io lo trovo curioso! E credo anche tu abbia intuito dove voglio arrivare. Quella del proiettile e delle particelle mi sembra una discreta metafora per provare a spiegare ciò che vedo laggiù sulla terra: può sembrare che il genere umano nel suo complesso segua una precisa e determinata direzione, ma se poi andiamo ad analizzare la posizione dei singoli individui, se prendiamo gli uomini uno ad uno, scopriamo che la loro collocazione è indeterminabile. Ognuno si muove per conto proprio, senza preoccuparsi di coordinarsi con l’altro. Ecco cosa intendevo per caos. Ma giunti a questo punto della riflessione mi chiedo: com’è possibile che nonostante il fatto che ognuno vada a briglia sciolta, per conto proprio, ignorando la direzione degli altri, preso nel complesso il genere umano segue in ogni caso una direzione? Non lo trovi un paradosso sconcertante?
Dostoevskij: Non voglio deluderti, Platone, ma di nuovo non vi vedo nulla di sorprendente. Al di là di questo, che sia un argomento di estremo interesse non c’è dubbio. E sai, il fatto curioso è che l’esempio della fisica quantistica viene utile anche a me per illustrarti ciò che penso e provare a risponderti. Allo stesso modo del proiettile, infatti, che nel medesimo instante è singola unità e somma di particelle, io mi azzardo a ipotizzare che in ogni istante l’essere umano vive due vite contemporaneamente. In una delle due egli è solo - ed è quindi particella - nell’altra è parte di una collettività - dunque proiettile. Per quanto riguarda l’essere umano diciamo così come proiettile, se me lo permetti vorrei porre alla base del discorso proprio alcune delle riflessioni su cui fa perno la Repubblica, perché nessuno, prima e dopo di te ha saputo spiegare questo concetto in modo migliore. L’umanità, affermi, non è nient’altro che lo specchio dell’uomo, così come il singolo è specchio dell’umanità, in quanto si pone come costituzione di un rapporto, ossia come politeia, cioè come bene e giustizia. E dunque, se l’esserci dell’uomo sta nella sua tensione a saper pensare, a realizzare la propria essenzialità, nel sapere ciascuno la propria funzione, nel sapere ciascuno suonare bene la propria parte, in una partitura, in relazione a una sinfonia, allora significa che principio e fine, bene e giustizia coincidono nel sapere; e l’essenza dell’umanità non data, ma in fieri, è quella di essere sinfonia, politeia.
Platone: I miei complimenti, Fedor, io stesso non avrei potuto esprimermi più efficacemente.
Dostoevskij: Mi fa piacere. Ma andiamo avanti. L’essere umano in quanto proiettile è dunque parte di un tutto, e in quanto parte di un insieme vive in funzione degli altri, condividendo con essi lo stesso obiettivo e la medesima visione del mondo. L’essere umano in quanto collettività instaura relazioni, coopera, unisce le forze per il raggiungimento di un obiettivo condiviso. L’essere umano in quanto collettività è consapevole dell’esistenza e della necessità di leggi che regolano i rapporti tra gli individui, poiché senza un insieme di divieti e prescrizioni regnerebbero il caos, il disordine, l’anarchia. L’essere umano come collettività, inoltre, ha ben chiaro di essere letteralmente frutto di una relazione, un incontro, un’unione. È cosciente del fatto che l’intera sua vita si svolge a stretto contatto con gli altri, e che l’isolamento assoluto è impossibile. Soprattutto si rende conto che l’unione, l’altro, sono indispensabili per un fatto estremamente semplice: un uomo, da solo, non può riprodursi. Senza rapporti, la specie umana cesserebbe di esistere in un batter d’ali. In fondo, mio caro Platone, come spiega il Grande Inquisitore a Cristo, quello di un inconfutabile, comune e armonioso formicaio – proprio quello che tu stesso immaginavi mentre venivi qui – non è nient’altro che il supremo desiderio dell’uomo sulla terra, e l’umanità nel suo complesso ha sempre mirato a organizzarsi in uno stato che fosse necessariamente universale.
Platone: Infatti. Un’efficace descrizione del proiettile. A questo punto non ti rimane che parlare della singola particella.
Dostoevskij: Ci arrivo subito. Ti prego di ricordare che l’assunto di partenza è che l’essere umano viva queste due vite contemporaneamente, nello stesso instante.
Platone: Non l’ho dimenticato, Fedor, prosegui pure.
Dostoevskij: Bene. Proprio in quanto particella e in quanto individuo, l’essere umano è solo di fronte alla vita, ed essendo egli stesso il solo e unico responsabile della propria esistenza tende all’autodeterminazione, alla realizzazione di sé, alla rivendicazione dei propri esclusivi diritti. In quanto individuo l’essere umano reclama autonomia di pensiero e libertà di parola. L’essere umano in quanto individuo non dipende da nessuno. È autosufficiente. Non ha bisogno di alcun consiglio o sostegno. In quanto individuo, l’essere umano si oppone a tutti gli altri esseri umani. Si oppone a tutto e non può non essere ribelle. Ogni essere umano in quanto individuo percorre una strada propria, e non incontra nessuno sul proprio cammino. L’essere umano in quanto individuo non tollera altra legge se non la propria, e parla una lingua che solo egli stesso può comprendere. Non comunica all’esterno, ma solo con se stesso. Ha uno sguardo che abbraccia il mondo intero, non essendoci un altro punto di vista che gli si oppone. Non instaura relazioni con altri individui, ma semplici contatti. Per l’essere umano in quanto individuo l’egoismo è un’idea inconcepibile, assurda, perché esiste solo per se stesso. L’essere umano in quanto individuo tende all’autodistruzione.
Il singolo – in altre parole la nostra particella - è inoltre perfettamente cosciente del fatto che in ogni istante della vita sarà irrimediabilmente solo. Sarà solo quando dovrà affrontare problemi o prendere decisioni, rischiare o arrendersi, scommettere o scappare. L’individuo, infatti, sa perfettamente che nessuno mai gli presterà un paio d’occhi per guardare cose che non vorrebbe guardare, così come nessuno lo sostituirà quando si troverà ad affrontare una terribile decisione o un grande dolore, né sarà qualcun altro fornirgli le parole quando non saprà cosa dire. Nonostante sia circondato da altri individui, dunque, sa benissimo che questi altri non potranno mai fare nulla per lui, proprio perché sono altro da sé, anch’essi confinati nel loro irrimediabile isolamento. L’essere umano come singolo ha la consapevolezza che non potrà guardare e affrontare il mondo se non con i suoi occhi, con le sue azioni.
Il succo della faccenda, Platone, sta tutto qui: che mentre l’essere umano come particella non vuole essere un tasto di pianoforte, l’essere umano in quanto proiettile non aspira altro che a quello. Ecco, nello stesso istante e in ogni circostanza della vita l’uomo è nello stesso momento particella e proiettile strumento e orchestra, tasto e pianoforte.
Platone: un tasto di pianoforte…
Dostoevskij: Già, Platone, le persone rimangono sempre persone, e non tasti di pianoforte su cui le leggi della natura, di Dio o della Repubblica possano suonare di propria mano. Ma diciamo di più: anche nel caso in cui si dimostrasse effettivamente un tasto di pianoforte, se ciò venisse un giorno dimostrato con le scienze e la matematica, allora anche in questo caso l’uomo non si ravvederebbe, ma farebbe di proposito qualcosa al contrario, unicamente per ingratitudine; insomma per fare di testa propria. E nel caso in cui non avrà mezzi, si inventerà il disordine e il caos, solo ed esclusivamente per affermare che è un uomo e non un tasto di pianoforte. In fondo tutta la questione umana consiste in effetti solo in questo, che l’uomo dimostri ogni minuto a se stesso che è ingranaggio essenziale di un motore, e allo stesso tempo tutt’altro che un misero pistoncino.

mercoledì 20 giugno 2007

Aforismi - 6

Non ci uccidiamo l’un l’altro perché ci siamo reciprocamente necessari.
Ci uccidiamo reciprocamente perché l’altro è superfluo.

martedì 19 giugno 2007

Sulla morte di Antinoo

A proposito dell’insospettabile rilevanza di una nota a piè pagina.

Fedele al costume di Racine il quale, nella prefazione delle tragedie, enumera accuratamente le fonti, la scrittrice Marguerite de Crayencour – anagrammatasi Yourcenar, francese di padre e belga di madre - chiude l’edizione italiana delle Memorie di Adriano con una Nota di 12 pagine (da pag. 305 a pag. 317), in cui fornisce un’accurata documentazione dei testi su cui si è basata per ricostruire la vita dell’imperatore Elio Adriano.
A una seconda e ben più sintetica nota - questa a volta a piè pagina 312 della Nota di cui sopra - è invece affidata una non meno rilevante considerazione: ‘Non si denuncerà mai abbastanza il fatto’ – scrive la de Crayencour – ‘che libri rari, esauriti, trovabili soltanto sugli scaffali di qualche biblioteca, o articoli pubblicati su vecchi numeri di riviste di alta cultura, per l’immensa maggioranza del pubblico sono totalmente inaccessibili. Novantanove volte su cento, il lettore desideroso di apprendere, ma privo di tempo e privo delle poche nozioni tecniche familiari all’erudito di professione, resta – volente o nolente – alla mercè di opere divulgative, scelte più o meno a caso; di queste, a loro volta, le più pregevoli, non sempre ristampate, diventano introvabili. Quella che noi chiamiamo la nostra cultura è più di quel che si creda una cultura per iniziati.’
Se per un verso, dunque, la Yourcenar tiene a dichiarare al lettore di aver costruito la narrazione basandosi su fonti storiche - tanto da indicare, ancora nella Nota, ‘alcuni tra i luoghi, non molto frequenti, nei quali si è aggiunto qualche cosa alla storia o la si è cautamente modificata’ – per l’altro la stessa autrice non si esime dal giudicare la reperibilità delle fonti stesse – in altre parole le prove che attestano la veridicità del racconto – una questione ‘per iniziati’.
Ho detto quasi sempre la verità, sembra dire tra le righe la de Crayencourt, e questa verità si fonda su una precisione filologica che non esito a mettere nero su bianco. Ma se voi, normali lettori, provate a ricostruire i fatti, novantanove volte su cento non giungerete a nulla perché la cultura è distante, arroccata in una turris eburnea accessibile solo a quei pochissimi eruditi di professione che sanno penetrarne i misteri. Perché, in conclusione, arrischiarsi in un’impresa che ha tutti presupposti per fallire se c’è qualcuno – io, Marguerite - che l’ha già affrontata e superata? Le Note da me vergate placano la sete di curiosità di una moltitudine di infelici, normali lettori alla disperata ricerca di inaccessibili fonti.

Alla rigorosa filologica dell’autrice non si sottrae nemmeno uno degli episodi centrali del romanzo: la morte di Antinoo, il giovane amante dell’imperatore misteriosamente deceduto a soli vent’anni. All’episodio sono infatti dedicate alcune righe tra le pagine 313 e 314: ‘Per le circostanze, così oscure, della morte di Antinoo, vedi W. Weber, Drei Untersuchungen zur aegyptisch-griechischen Religion, Heidelberg 1911 (…)’
Ma anche in questa circostanza l’informazione confonde le idee invece che chiarirle. Perché se da un lato l’autrice lascia l’episodio nell’oscurità, il protagonista del racconto a cui essa stessa dà voce, Elio Adriano, ha sull’argomento idee molto più chiare. Per essere più precisi, mentre la morte di Antinoo viene descritta tra la fine di pag 186 e l’inizio di pag 187, Adriano ne anticipa la sua lettura diverse volte. A pagina 163, per esempio, quando scrive ‘mi dico che il suicidio non è poi così raro, che è un fatto abbastanza comune morire a vent’anni’, o ancora, dieci pagine più avanti, quando sostiene che ‘un essere che aveva orrore della decadenza fisica, della vecchiaia, da tempo aveva dovuto ripromettersi di suicidarsi al primo indizio di quella decadenza, o anche molto prima’.
La soluzione estrema scelta da Antinoo – il suicidio – sembra dunque, secondo Adriano, non il risultato di una improvvisa illuminazione o di un raptus. Stando al suo racconto è piuttosto una lenta presa di coscienza che si rafforza nel breve arco della sua esistenza in coincidenza di determinati avvenimenti. Narra ancora a tal proposito Adriano: ‘pochi giorni prima di partire da Antiochia, mi recai, come in altri tempi, a sacrificare in vetta al monte cassio. L’ascensione fu fatta di notte. (…) Un temporale, previsto da tempo da Ermogene, che si intende di meteorologia, si scatenò a un centinaio di passi dalla cima. (…) L’esigua compagnia si affrettò attorno all’altare disposto per il sacrificio. Questo stava per compiersi allorchè un fulmine, balenando su di noi, uccise d’un colpo solo il vittimario e la vittima. (…) Antinoo, aggrappato al mio braccio, non tremava già di terrore come credetti allora, ma percorso da un’idea che compresi più tardi. (…) La folgore del monte cassio gl’indicava una soluzione: la morte poteva diventare una forma estrema di devozione, l’ultimo dono, il solo che sarebbe rimasto’.

Di fronte a tali affermazioni un lettore attento non può fare a meno di notare lo scarto tra la versione – o meglio la non-versione – fornita dall’autrice (la quale, lo ribadiamo, definisce così oscure le circostanze della morte di Antinoo proprio perché non trova alcuna fonte che getti luce su quest’episodio centrale della vita dell’imperatore) e la ricostruzione fornita dal diretto interessato, Adriano stesso.
Che quelle oscure circostanze - trasformatesi nelle parole di Adriano in suicidio – segnalino proprio uno dei rari luoghi in cui l’autrice ha aggiunto o modificato qualcosa alla storia? In altri termini, Adriano dice il vero? Antinoo si è davvero tolto la vita?
La tesi della morte volontaria, esplicitamente sostenuta dall’imperatore, entra però in conflitto con altre sue affermazioni. A ben guardare, infatti, la fitta trama del romanzo sembra rivelare, in più di un punto, diverse smagliature. Dalla narrazione emerge infatti chiaramente il fatto che è Adriano, col passare del tempo, a stancarsi di Antinoo: ‘il mio pastorello (…) non era più il fanciullo zelante che, alle soste, si gettava da cavallo per offrirmi l’acqua delle sorgenti attinta nel cavo delle sue palme; ora il donatore conosceva il valore immenso dei suoi doni.’ È nella vita di Adriano, e non in quella del suo compagno, che ricompare la passione per i profumi, la ricercatezza, il lusso freddo della acconciature. È Adriano che riprende a frequentare giovani amanti. È Adriano che, nel corso di una notte trascorsa a Smirne, costringe il suo amato a subire la presenza di una cortigiana. È Adriano che per primo sente il peso dell’amore, ‘come quello d’un braccio teneramente posato sul petto che a poco a poco si rende pesante’. È ancora Adriano a confessare che ‘l’assuefazione avrebbe condotto il loro rapporto a una fine senza gloria, ma ma anche senza disastri, che la vita procura a tutti coloro che non le ricusano il lene logorio del tempo’. È sempre Adriano, e non Antinoo, a sentire ‘il bisogno di ferire quella tenerezza ombrosa, che rischiava di costituire un impaccio nella mia vita’. È infine Adriano a percuotere Antinoo, e non il contrario.

‘Mi sforzo di ridurre il mio delitto, se tale dobbiamo chiamarlo, a proporzioni esatte’, afferma sorprendentemente, in una sorta di involontaria e inconsapevole rivelazione, Adriano. Ed è ciò che con i pochi mezzi messi a disposizione dall’autrice stiamo cercando di fare anche noi.
Ma se mai vi chiederete, di fronte a una delle innumerevoli statue del giovinetto di Bitinia volute dall’imperatore, perché gli scultori abbiano attribuito a quella giovane e bella bocca una tale piega amara, pensate al gesto di un amante, che dichiarandosi responsabile della bellezza del mondo, interrompe la vita dell’amato per sottrarla all’inesorabile corruttibilità del tempo e fissarla per sempre nella sua forma ideale.

giovedì 14 giugno 2007

Dialogo tra Dio e Glenn Gould

ANGELO DI DIO: Glenn Gould, accusato di superbia, tracotanza, sovversione.

DIO: niente male per un pianista. Un curriculum di tutto rispetto.
GLENN: nulla che mi sorprenda. Tanti, per più di un motivo, avrebbe voluto mandarmi all’inferno, ma non ho mai preso la cosa troppo sul serio. Detto ciò, data la circostanza, sarei curioso di sapere chi mi accusa.
DIO: non ci vuole un genio per capirlo. Possibile che tu, Glenn Gould, non ti sia fatto nemmeno una vaga idea?
GLENN: stiamo forse parlando di Mozart? Si è risentito perché ho dichiarato che è morto troppo tardi invece che troppo presto?
DIO: sbagliato. Anche se, francamente, Wolfgang avrebbe tutti i diritti di vederti dannare per l’eternità.
GLENN: non crede, Signore, sia lui a meritare di ardere eternamente tra le fiamme? Molta musica mediocre che infesta il mondo è causa sua.
DIO: grazie per il suggerimento, Glenn, ma ho avuto modo di esprimermi su Wolfgang a suo tempo. So come la pensi, siamo qui anche per questo, e avrai modo di illustrare tra breve il tuo punto di vista. Ma tagliamo corto. Non è stato Mozart ad accusarti, Glenn, ma Dio, ovviamente. Io stesso, uno e trino.
GLENN: onorato, Signore.
DIO: onorato? Il giudizio divino è forse un privilegio riservato a personalità di rilievo? Non illuderti, Glenn: si tratta di una prassi comune nella burocrazia dell’aldilà. E ora che sai che sono io stesso ad accusarti, non ti viene voglia di dire qualcosa in tua difesa?
GLENN: niente affatto, perché all’impianto accusatorio manca ancora un tassello fondamentale: le prove.
DIO: le prove, giusto. Sarai tu stesso a fornirmele. Ecco, ascolta.
GLENN: una tortura degna dell’inquisizione. Sono io. Io che suono quel maledetto austriaco.
DIO: infatti. 7 gennaio 1968. Incidi per la prima volta la Sonata per pianoforte in la maggiore K 331 presso gli studi della Columbia. Ed ecco cosa ne viene fuori.
GLENN: la definirei un’interpretazione poco ortodossa.
DIO. ben detto. Poco ortodossa. Prendiamo il tema, ad esempio.
GLENN: ho esposto più volte il mio punto di vista sull’argomento. Nell’affrontare lo sviluppo del tema iniziale mi sono servito di una sorta di versione capovolta della mia teoria della modularità. La melodia fin troppo nota della k 331 è stata in altre parole sottoposta a un’analisi weberniana, che ha isolato l’uno dall’altro gli elementi fondamentali e indebolito, di conseguenza, la continuità del tema.
DIO: geniale, davvero. E tutto ciò – mi preme sottolinearlo – in barba alle precise indicazioni fornite da Wolfgang. Perché – correggimi se sbaglio – lo spartito parla di un andante grazioso che giunge ad un adagio nel quinto movimento.
GLENN: esatto. Io ho invece optato la soluzione opposta, quella dell’accelerazione progressiva, con il risultato che è l’adagio a farsi andante. È solo grazie a questa inversione che il succedersi delle variazioni perde il suo carattere decorativo e ornamentale.
DIO: decorativo e ornamentale, certo. Devo ammetterlo, Glenn, la tua limpida esposizione mi affascina. Potrei stare ore a sentirti discettare di teoria della modulazione, ma non è questa la sede. Mettiamo per un momento da parte Wolfgang e dedichiamo la nostra attenzione a un’altra delle tue storiche incisioni: 18 ottobre 1967, 30th Street Studio, New York City. L’Appassionata di Beethoven.
GLENN: siamo già all’inferno? Perché queste note sono un tormento premeditato.
DIO: davvero? Anche a me trasmettono la stessa sensazione quando le ascolto.
GLENN: sono lieto di sapere che condivide almeno la mia repulsione per Beethoven.
DIO: Ludwig non c’entra nulla, Glenn. Mi riferivo alla tua interpretazione. Ma dimmi, a proposito: cos’è che non va nell’Appassionata per sentirti autorizzato a fare di un esordio Allegro assai della partitura originale il tuo Lentissimo?
GLENN: la sua ostinatezza tematica. Sembra che nell’Appassionata Beethoven si diverta a edificare imponenti strutture melodiche partendo da un materiale che in mani meno abili non sarebbe bastato per un’introduzione di sedici battute. Per non parlare poi dei temi stessi: di dubbio interesse alcuni, grossolanamente rudimentali altri. Mi chiedo se ci voleva un Beethoven, per inventarli.
DIO: ci vuole una bella faccia tosta a definire rudimentali i temi dell’Appassionata. Eppure non credo che l’intera produzione dell’ultimo Beethoven si possa definire tale.
GLENN: no di certo. Preferisco definirla sopravvalutata. Sulle Sonate e i Quartetti, per esempio, sono state scritte più stupidaggini di qualsiasi altra letteratura paragonabile: Beethoven spirito indomabile che ha trasceso il mondo, Beethoven mistico visionario, Beethoven realista, anche. Sarà. Io penso invece che Beethoven si sia preoccupato troppo spesso di essere Beethoven, e gran parte della sua produzione è gravata da un’ampollosità egoistica, un atteggiamento provocatorio e belligerante.
DIO: e tu, basandoti su questi presupposti, hai pensato bene di fare delle interpretazioni delle sonate di Beethoven degli atti di sabotaggio premeditati: la folle velocità del primo movimento dell’op. 111 invece di un poco ritenente, il Finale dell’op. 109 tutt’altro che cantabile…
GLENN: sabotaggi? Chiamiamoli cambiamenti, frutto non di eccentricità ma di un’attenta lettura delle partiture originali. Non saranno tra le mie interpretazioni più convincenti, ma senza dubbio sono le più convinte.
DIO: sono convinto anch’io, Glenn. Convinto di aver aggiunto un altro tassello al mio atto d’accusa. Ho un tale desiderio di chiudere il cerchio e proporti la mia versione dei fatti che rinuncio a farti ascoltare il terzo brano, per passare direttamente all’ultimo.
GLENN: Dio sia lodato.
DIO: hai poco da scherzare, perché sulle Variazioni Goldberg mi avresti dato filo da torcere.
GLENN: al diavolo. Perso Bach, mi domando cosa mi riservi l’epilogo.
DIO: ascolta e rispondi tu stesso.
GLENN: Hindemith?!
DIO: già.
GLENN: non me l’aspettavo.
DIO: nessuno se l’aspettava.
GLENN: cosa?
DIO: ora ci arriviamo. Raccontami com’è andata. Quando vengono pubblicate per la prima volta le tue tre sonate di Hindemith?
GLENN: nel ‘73.
DIO: esatto. Hindemith, se non sbaglio, le compone negli anni Trenta, ma vengono ignorate per più di quarant’anni. Ipotizziamo che fino al ‘45 il nostro possa essere stato, diciamo così, messo da parte per motivi politici. Ciò non spiega il silenzio fino ai primi anni Settanta. O meglio, chiunque dedurrebbe che il silenzio ha ragioni squisitamente musicali. Ma il silenzio, incredibilemente, un giorno si rompe. Il giorno in cui Glenn Gould decide di incidere non una, ma tre delle sue sonate per pianoforte. E succede l’impensabile: dal giorno alla notte quello che tutti ritenevano un compositore da quattro soldi entra nell’Olimpo della musica. Avanti, Glenn, è ora che tu mi dia l’ultima lezione. Spiegami Hindemith.
GLENN: molto semplice: basta sgombrare il campo da alcuni clichés che hanno infarcito i commenti alle sue opere e si scopre un compositore di talento che ha incarnato il dilemma stilistico fin de siecle, ambiguamente vicino sia al pragmatismo germanico sia all’idealismo tedesco. Con ciò non voglio diire che l’intera produzione di Hindemith sia entusiasmante, ma nella mia personale graduatoria dei compositori Hindemith si pone, per esempio, sul versante opposto di Beethoven.
DIO: quale versante, scusa?
GLENN: quello della serenità. Tanto Beethoven era irruento e bellicoso quanto Hindemith ha rappresentato una fusione di calcolo e estasi.
DIO: d’accordo, d’accordo. Non mi sembra il caso di spingerci oltre. Anche perché ascoltarti è imbarazzante. Ogni volta che concludi un ragionamento non faccio altro che chiedermi: possibile che fino ad ora tutti si siano sbagliati e solo tu abbia visto giusto? Possibile che siamo tutti deficienti e tu l’unico furbo? Perché se domandi a chiunque possieda nel proprio bagaglio culturale la nozione di musica classica chi sono Mozart e Beethoven, un coro unanime di voci risponderà che sono due tra i più geniali compositori dell’umana specie. Certo, ognuno avrà le sue preferenze, ma nessuno si sognerebbe di mettere in discussione l’autorità dei due maestri. Ma quando tocca a Glenn Gould affrontarli, ne viene fuori uno scontro. La tua avversione alla loro musica, alla loro figura, al loro successo è inversamente proporzionale alla loro grandezza e genialità. L’esempio del tuo rapporto con Mozart calza a pennello. I motivi del tuo odio non dipendono da una diversa concezione della musica. Il fatto è che hai letto sufficiente materiale per farti una precisa idea della sua vita. Sai per esempio che Wolfgang dimostra prodigiose doti musicali prima ancora di saper leggere e scrivere. Sai anche che a quattro anni suona il clavicordo e a sette viene invitato, insieme alla sorella, a esibirsi alla corte d’Austria dall’imperatrice Maria Teresa in persona. Sei poi perfettamente a conoscenza del suo stile di vita – diciamo così – non certo morigerato: la sete inesauribile di fama e successo, l’attaccamento al denaro, la costante necessità dell’approvazione del pubblico, i problemi economici eccetera eccetera, giusto? E soprattutto, sei a conoscenza del fatto che Mozart ha pensato, immaginato, creato e scritto molte delle pagine più intense della storia della musica, che rimarrranno forse per sempre nell’immaginario collettivo dell’essere umano. Quante persone ieri, oggi e domani cantichieranno un motivetto di Mozart? Quanti interpreti, per quanti secoli a venire, si misureranno sui suoi pentagrammi? E lo stesso discorso vale per Beethoven: solo un folle smontarebbe, taglierebbe, ricucirebbe una melodia perfetta per proporre una versione semplicemente inversa ai canoni.
Ma si sa, se c’è un modo per attirare l’attenzione degli uomini ed essere considerati geni è passare per pazzi, e per essere giudicati tali senza esserlo realmente è sufficiente fare o dire radicalmente l’opposto di ciò che tutti pensano o credono. E così hai fatto tu: dopo che migliaia di pianisti per lunghissimo tempo hanno prodotto ognuno la propria interpretazione rimanendo sempre rispettosamente nei canoni prescritti da chi aveva creato la melodia, tu da un giorno all’altro, come se nulla fosse, ti permetti di fare di un allegro un lentissimo, di un adagio un andante, di dare dell’ornamentale a Mozart e del rudimentale a Betthoven. E non contento, per provare a te stesso e al mondo il tuo potere, trasformi il signor nessuno Hindemith nel talento musicale fin de siecle. Davvero un colpo ben organizzato, tant’è che nell’immaginario collettivo sei considerato un geniale interprete proprio per le interpretazioni fuorvianti dei maestri della musica. La stessa sorte è toccata, beninteso, ai tuoi prediletti: le tue variazioni sulle variazioni goldberg – altre perle gettate ai porci – sono lì a testimoniarlo.
E tutto ciò perché?
GLENN:per difendere la libertà dell’interprete.
DIO: balle, Glenn. Non c’è nessuna motivazione filosofica. Il tuo è semplicemente un atto dettato dalla tracotanza, dalla superbia, dall’invidia. La verità - per dirla nei termini della filosofia greca - è che hai peccato di hybris: non hai saputo essere misurato, né hai rispettato i tuoi limiti nei rapporti con gli altri uomini e con l’ordine delle cose. Siamo franchi: tu conosci perfettamente la differenza tra compositore e interprete. Sai che un esercito di geniali interpreti non varrà mai un mediocre compositore, perché senza il lavoro creativo di quest’ultimo ai pianisti non resterebbe che mangiarsi le unghie. Ma tu non ti accontenti di essere il miglior interprete: vuoi diventare il miglior compositore. Il dramma, caro Glenn, sta però nel fatto che non ne sei all’altezza. Lo sai bene anche tu. Hai provato, come no, a scarabocchiare qualcosa sul pentagramma, ma hai avuto imbarazzo di te stesso, hai toccato con mano e sei stato colpito mortalmente dalla tua inadeguatezza. Hai quindi cercato il modo più rapido ed efficace per nascondere questa tremenda verità a te e agli altri, e per un verso ti sei scagliato con furia iconoclasta contro le massime autorità della storia della musica, per l’altro hai cercato di arrangiarti come compositore servendoti proprio delle melodie più celebri, abusando in questo modo non solo delle note ma anche del nome dei maestri. E non contento, per concludere, hai tradotto il tutto nel linguaggio tecnico e specialistico della teoria musicale per dare al tuo accanimento dignità scientifica. Il pubblico e la critica ci sono cascati, Glenn. La storia anche. Ma tu no. Hai mascherato ad arte questa inadeguatezza per cinquant’anni, ma poi la disperazione ti ha ucciso, nel senso letterale del termine. E come avrai capito non ci sono cascato nemmeno io. Alla fine dei conti, Glenn, non sei forse tu, ancor più di Wertheimer, un soccombente?
GLENN: tout se tient. Mirabile interpetazione. Una lettura dei fatti poco ortodossa, degna del miglior Gould.
DIO: interpretazione, giusto. È il materiale di partenza – quello che hai scritto tu con la tua vita – che lascia a desiderare. Ma anche la migliore delle intepretazioni non salva la partitura da un’inesorabile stroncatura.

martedì 12 giugno 2007

Free thinking

‘Governare non è un atto del pensiero’.
Ecco come mi sono innamorato di questa frase: erano giorni che cercavo di trovare un’espressione sintetica ed efficace, e soprattutto filosofica, per ciò che mi frullava da tempo per la testa, e a fornirmi su un piatto d’argento la soluzione è stato nientemeno che il prof. Padoa Schioppa.
Governare non è un atto del pensiero. Così, l’altra sera, risponde il ministro al giornalista che lo accusa di aver fatto poco rispetto a quanto programmato dal governo. Come dire: un conto è pensare le riforme, un altro è attuarle; un conto è mettersi attorno a un tavolo e riempire delle pagine bianche con le migliori riforme mai vergate da mano umana, un altro è – una volta al governo – trasformare questi liberi, gratuiti e sopraffini atti di pensiero in altrettante azioni di governo.

C’è chi nel passato ha cercato di gettare discredito sui Liberi Atti di pensiero, affermando che in fondo fantasticare sia la cosa più facile del mondo. Dico, stiamo scherzando? Noi non elaboriamo atti del pensiero qualunque. Noi viviamo e ci nutriamo di atti del pensiero di livello elevatissimo. Siamo dei raffinati, noi. In quanto ad atti di pensiero non siamo secondi a nessuno. Siamo infatti capaci di compiere atti del pensiero con tale forza e intensità da confonderli sovente con la bieca quotidianità.

Facciamo un esempio. Pensate per esempio a un mondo senza guerre. Pensato? Bravissimi! Non è fantastico? Dio mio, se chiudo gli occhi mi vengono i brividi dall’emozione… facile, no? Insomma è grandioso! Abbiamo pensato a un mondo senza guerre, è bellissimo, l’hai pensato anche tu? Davvero? Allora Stop alle Guerre, senza indugio. Qui e ora. Che odio la guerra. Che brutto. Deponete le armi e dialoghiamo. Scendiamo in piazza e gridiamolo al mondo, ecco il nostro Atto di pensiero. Allora vuol dire che se possiamo immaginare idee del genere possiamo fregiarci del titolo di Pacifista, colui che rifiuta la guerra. Non è fantastico? Una moltitudine di persone che condivide il medesimo atto di pensiero, ‘Stop alla guerra globale’. Cosa importa, poi, se nei fatti la guerra sia un dato costante, ineliminabile, essenziale della vita reale? Cosa importa se le dichiarazioni ideali non si sono mai trasformate anche solo in vaghe ipotesi di metodologie operative? Noi non proponiamo certo soluzioni. Non abbiamo nessuna intenzione di metterci a ragionare concretamente e realisticamente su come idee così alte siano applicabili all’infima realtà quotidiana. Non vogliamo certo sporcarci le mani. E poi, non siamo certo politici o militari. Ma siamo gente che pensa, questo sì. E abbiamo diritto di esprimere il nostro pensiero.

E poi – dato assai rilevante - gli atti di pensiero sono davvero democratici. Adulti, bambini, politici, pensionati, operai, manager, ladri, assassini: tutti possono sognare, e fantasticare non costa nulla. E chiunque sarà d’accordo nel sostenere che gli Atti di pensiero fanno da sempre la loro porca figura, soprattutto ultimamente. Provate infatti a cambiare anche solo di poco la realtà in senso positivo: nessuno se ne accorgerà, anzi ve lo rimprovereranno. Formulate, invece, un iperbolico Atto del pensiero: verrete celebrato come Eroe, come Genio dell’Umanità, come Salvatore.

Dunque non esiste ragione in base alla quale gli atti del pensiero debbano acquisire la pragmaticità dell’azione reale. In fondo, detto tra noi, chissenefrega? È del tutto ininfuente. Anzi, devono ben guardarsi dal farlo. Del resto, chi ha voglia di misurarsi con la realtà? Meglio non confondersi con essa. Troppo complicata. Sappiamo già come va a finire: la realtà è immodificabile, una qualsiasi nostra azione concreta – qualsiasi valore essa abbia - non potrà mai contribuire a cambiare alcunchè, dunque dimentichiamoci delle azioni, e affidiamoci agli atti di pensiero. Lasciateci crogiolare nella constatazione che noi, quantomeno, siamo in grado di formulare pensieri di tale vastità, siamo capaci di andare oltre la mera quotidianità, siamo capaci di slanci, di ebbrezza, di passione, di orizzonti.

lunedì 11 giugno 2007

L'etica della deresponsabilizzazione

Anche i politici sono concordi nel constatare la crisi della politica. Della politica, appunto, e non dei politici. La distinzione è fondamentale. Sembra che a essere messe sotto accusa non siano le azioni di un gruppo di individui – dunque una serie di fatti, persone, programmi e strategie - ma piuttosto un’entità superiore, astratta, incorporea, ideale – la Politica, appunto – che dagli spazi iperuranici muove a suo piacimento i nostri malcapitati politici, togliendo loro ogni possibilità di reazione, ogni tentativo di ribellione.

I politici, in realtà, non parlano mai. È la Politica a parlare per bocca loro. I poveretti vorrebbero ogni tanto provare a dire qualcosa di diverso, vorrebbero provare a fare qualcosa, ma sono le leggi della maledetta Politica ad impedirlo, dannazione. Siamo spiacenti, ma non possiamo proprio farci nulla.

Sembra quasi che la cosa non li riguardi. La Politica è un gioco più grande di loro, non un gioco creato da loro stessi. La Politica è un ente lontano, separato, impenetrabile, che condanna chi ne subisce il fascino a una vita forzata, a scelte obbligate anche se impopolari o palesemente ingiuste.

Altro che etica della responsabilità! Questa tendenza alla passività, a deresponsabilizzare le proprie azioni e il proprio ruolo, a spersonalizzare l’esperienza umana, a delegare ad altri ciò che dovrebbe competere a noi stessi, a scaricare le responsabilità su forze sovrumane che orientano i nostri destini non è caratteristica esclusiva della politica, ma è una vera e propria malattia che colpisce ogni ambito dell’esistenza contemporanea.

Per dirla in altre parole, e solo per fare qualche esempio, non esistono più scienziati, ma la Scienza, entità dalla potenza spaventosa e incontrollabile, che dei semplici ricercatori non sono certo in grado di gestire e tenere sotto stretto controllo.

Non esistono più tecnici, ma la Tecnica, tanto che Umberto Galimberti è costretto a scrivere, nel saggio L’uomo nell’età della tecnica sull’ultimo numero di MicroMega, che ‘la Tecnica è diventata oggi il vero motore della storia, rispetto al quale l’uomo è ridotto a funzionario dei suoi apparati.’

E ancora. Come scrive Raniero La Valle nell’articolo intitolato Un nuovo Pacifismo, ‘la selezione la fanno i Mercati (maiuscolo – compresi i sucessivi - dell’autore dell’articolo), che sono entità astratte, irresponsabili. Sono loro che votano. La Mano che divide, che separa, che discrimina, che licenzia, è la Mano Invisibile del Mercato’.

Non esistono più eserciti, armi, soldati, ma la Guerra, mostruoso incubo che ci costringe – nostro malgrado – a usare violenza, ad aggredire e invadere, a uccidere e torturare.

Non esistono le scelte o le responsabilità personali ma la Società, ente multiforme e impalpabile che orienta i nostri gusti, le nostre scelte, le nostre azioni, senza lasciarci alcuna possibilità di scelta individuale.

Ecco: sono queste e tante, tantissime altre Mani Invisibili a muovere noi, povere marionette indifese. Siamo come creta nelle mani di questo nefasto Olimpo contemporaneo: un’insieme di Potenze Oscure che ci sovrastano e ci plasmano a loro piacimento.

Il risultato di questa linea di pensiero è che gli individui (soprattutto i veri responsabili) come per magia scompaiono, oppressi e annullati da immense forze esterne che li dominano come e più dei tiranni. Contro tali forze incommensurabili, gli esseri umani non possono fare altro che subire e adeguarsi, conformandosi senza possibilità di scampo alle leggi dei rispettivi carnefici. Gli uomini non sono più responsabili di nulla, ma si trasformano semplicemente in vittime. Vittime designate di oscure trame ordite alle nostre gracili, misere spallucce.

A questo, buffoni che non siamo altro, ci siamo ridotti: ad affermare di non poter fare nulla per difenderci da noi stessi.

domenica 10 giugno 2007

Dialogo tra un artista contemporaneo e un critico d’arte contemporanea

ARTISTA: Hai finito il pezzo?
CRITICO: Ti prego, lasciami pensare. Ho bisogno di riflettere. Mi dai sui nervi. Ma poi che diavolo ci stai a fare qui? Non servi a nulla. Sei inutile. Vai a casa, sdraiati, e quando ho finito ti faccio uno squillo.
ARTISTA: Forse hai ragione. Ma pensi ci voglia ancora molto tempo?
CRITICO: Il tempo necessario, non un minuto più, non un minuto meno. Ma che razza di domande sono? Non sto avvitando bulloni o impastando una pizza. Devo pensare, riflettere, ponderare, paragonare, leggere, inventare, contraddire, evocare, provocare, se permetti. Nulla di cronometrabile, fino a prova contraria. Levati dai piedi, come te lo devo ripetere? Lasciami concentrare, lo dico per il tuo bene.
ARTISTA: Scusami, lo so, non alterarti. È che ogni volta che stai per finire un pezzo io divento nervoso. L’attesa mi sfibra. Passo ore e ore a cercare di immaginarmi qualcosa. La notte faccio incubi orrendi. Eppure ho la certezza che farai un ottimo lavoro. Ne sono convinto. Farai ancora centro. I tuoi saggi critici fanno sempre rumore.
CRITICO: Fanno rumore, farai centro… ma che espressioni usi? Non ti vergogni nemmeno un po’? E io dovrei presentarti a galleristi, collezionisti, mecenati… Nel bel mezzo di una discussione saresti capace di saltare su e dire ‘non pensate anche voi che i suoi saggi critici facciano rumore?’. Non sei in grado di esprimerti in modo un po’ più evoluto, appropriato, aggraziato?
ARTISTA: In italiano non sono mai andato molto bene.
CRITICO: Capisco, certo, tu sei un artista. Un artista non è tenuto ad aprire bocca. Non deve esprimersi come Dante. Un artista è un artista!
ARTISTA: Appunto!
CRITICO: Appunto! Allora visto che un artista è un artista, dimmi cos’è l’arte.
ARTISTA: Cioè?
CRITICO: Cioè un corno. La domanda è semplice e diretta. Ti ho chiesto cos’è l’arte.
ARTISTA: Cos’è l’arte? Adesso?
CRITICO: Adesso, sì.
ARTISTA: Ok, ma stavi scrivendo, e io ti sto solo disturbando. Non faccio altro che disturbarti. È lo stress, te lo ripeto, sono nervoso. Ma ora ti lascio.
CRITICO: Chi era albrecht durer?
ARTISTA: Scusa?
CRITICO: Parliamo del puntinismo.
ARTISTA: Ascolta, è ora che vada.
CRITICO: Ma no, ti prego, accomodati. Perché non facciamo due chiacchiere sull’influenza della fotografia sulla pittura? O preferisci intrattenermi sullo sfumato leonardesco? Ma forse ti ho interrotto: stavi accennando qualcosa a proposito della teoria dei colori di kandjinskij, se non sbaglio.
ARTISTA: Ehm, no, a dirti il vero eravamo rimasti al tuo saggio, tu stavi per terminare il tuo saggio sulla mia ultima opera e io ero lì lì per andarmene.
CRITICO: Già, mettiamola così… diciamo che hai ragione, sto perdendo tempo. Perché perdere tempo a porre domande superflue ad un artista?
ARTISTA: no, scusa, hai ragione tu, noi artisti siamo una brutta razza. Me lo chiedo anch’io ogni tanto come fai. Eppure senza di noi il tuo lavoro non avrebbe senso.
CRITICO: per favore taci. Non andare oltre. Oltre che fastidioso sei anche sfrontato.
ARTISTA: Va bene, va bene, finiamola. Ma ti prego, lasciami andare via con il cuore in pace. Fammi dormire, stanotte. Dimmi quanto ti manca.
CRITICO: Poche righe.
ARTISTA: Poche righe? Davvero?
CRITICO: Sì. La conclusione è ormai delineata.
ARTISTA: Ma è fantastico!
CRITICO: Fantastico, sì. Se non fosse per il fastidio che mi provoca il contatto e il dialogo con gli artisti, devo ammettere che è fantastico: ogni volta che scrivo un saggio critico mi sento un demiurgo che crea un mondo dal nulla. Che getta luce nelle tenebre.
E tu, piuttosto, a che punto sei con l’opera?
ARTISTA: L’opera?
CRITICO: L’opera, sì, l’opera! La tua ultima opera! Secondo te di cosa stiamo parlando? Quando ti degnerai di farmela vedere?
ARTISTA: Io… non l’ho ancora cominciata.
CRITICO: Non ci credo. Ti prego.
ARTISTA: Sono nella fase creativa…
CRITICO: Nella fase creativa! A due giorni dalla mostra il nostro artista è nella sua fase creativa, non disturbiamolo! Signori, vi prego, abbassate la voce, l’artista sta meditando. Allontanatevi, lasciatelo solo. Povero ingenuo, illuso, stupido… te l’ho ripetuto mille volte: non sforzarti, è inutile. Non serve. Te la puoi cavare con niente! Basta che vai a casa e fai qualsiasi cosa. E se non stai a pensarci troppo è meglio. Ammucchia qualcosa. Fai una foto qualunque. O uno scarabocchio. Butta un paio di cose per terra. Cazzo, ma come te lo devo spiegare?
ARTISTA: ho fatto qualche tentativo ieri, ma non ero convinto.
CRITICO: Ma non sei tu che devi convincerti, sono io che devo convincere loro! Quante volte te lo devo ripetere? E ora vai a casa. E mi raccomando: non sforzarti, non pensare, stai tranquillo. Fai qualsiasi cosa. Io il mio lavoro l’ho fatto. E tu sei un grande artista.

venerdì 8 giugno 2007

Lamentazioni - 6

Lamentiamoci. Lamentarsi. Mio fratello fa il commesso in un negozio di scarpe all’interno del più grande centro commerciale d’Italia. Spesso torna a casa incazzato nero, e si sfoga raccontandomi la maleducazione dei clienti: ‘Non ti chiamano nemmeno: dicono ehi, o addirittura fanno un fischio. O ti battono con la scarpa sulle spalle, da dietro. L’altro giorno ho sentito uno che per rivolgersi a un mio collega diceva: dov’è quel piciu che se ne è andato con le mie scarpe?’
Ora, vorrei capire perché mio fratello – persona intelligente, sensibile e riflessiva, che ha un punto di osservazione privilegato: uno dei negozi più frequentati del più grande centro commerciale italiano - si lamenta. Proprio a lui - ogni giorno a contatto con centinaia di persone dell’anonima massa di individui che invade l’ipermercato - vorrei chiedere chi si trova di fronte, con chi deve avere a che fare… Come sono le persone, generalmente? Sono pazienti? Sono educate? Sono disponibili? Sono aperte al dialogo? O ancora: chiedono o pretendono? Domandano o ordinano? Approvano o criticano? Sono gentili o arroganti? Pazienti o impazienti? Tranquille o agitate? Presi così, a mucchi, a valanghe, a ondate, cosa siamo? Dico in linea generale, così, per fare un quadro della situazione. E ci risiamo. Poiché io non mi aspetto che mio fratello mi descriva, sempre in generale, un’umanità paziente, rispettosa, educata, concludo che è normale avere a che fare quotidianamente con persone con le caratteristiche opposte. Nella stragrande maggioranza dei casi della vita avremo a che fare ora con un arrogante, ora con un bugiardo, ora con un impaziente, ora con un maleducato, e così via. Perché questa è la norma, non l’eccezione. Rientra nella consuetudine. Allora perché lamentarsi di una cosa normale? È come prendersela con un fico perché produce fichi. O lamentarsi con un sasso di essere un sasso. Invece che lamentarti – saresti costretto a lamentarti da adesso all’ultimo dei tuoi giorni, oltre che con gli altri soprattutto con te stesso, essendo tu peggiore di tutti gli altri – potresti invece rallegrarti con quei pochi che dimostrano rispetto, tranquillità, sensibilità: che so, dargli una pacca sulla spalla, stringere loro la mano con calore, ringraziarli in modo sincero, schietto. Per farli sentire, come in effetti sono, esemplari rari.

lunedì 4 giugno 2007

Lamentazioni - 5

Del resto, essendoci dati degli ideali irraggiungibili nella pratica, non possiamo fare altro che lamentarci della distanza che separa i modelli loro manifestazioni concrete. Come già detto, poiché per sua definizione il reale risulta sempre e necessariamente di grado inferiore rispetto all’ideale, non possiamo fare altro che lamentarcene, avendo poi ben presente che nulla potrà mai colmare l’abisso.

Siamo degli idioti, perché ci siamo costruiti questa trappola con le nostre stesse mani. Nessuno si rende conto che basterebbe portare l’asticella un po’ più in basso, e l’ostacolo diventerebbe alla nostra portata. E allenandoci, con la dovuta pazienza e sacrifici necessari, potremmo centimetro dopo centimetro alzare il limite.

Lamentazioni - 4

Ma oltre al divieto di lamentarsi di sé, c’è un secondo tratto che caratterizza il lamentarsi contemporaneo: ci si lamenta e basta. Non si muove un dito per cambiare alcunchè. Se le cose cambieranno, sarà per un dono del cielo, non certo perché noi abbiamo fatto concretamente qualcosa per migliorarle. Del resto, anche se noi facessimo qualcosa non servirebbe a nulla, perché saremmo solo noi a farlo. Allora tanto vale continuare a fare come tutti.

Questo aspetto è determinante: perché ci si può lamentare indifferentemente di qualsiasi cosa solo se nulla migliora. Dunque meno facciamo, più contribuiamo a mantenere intatto questo patrimonio incommensurabile di cose di cui lamentarsi.

La verità è che se tutto andasse come dovrebbe, di cosa diavolo potremmo parlare? Con chi fare le vittime? Con chi piagnucolare? Con chi lamentarsi della propria amara sorte?

Lamentazioni - 3

Vivere significa fare a gara a chi si lamenta di più. Ma fare l’elenco di ciò di cui ci si può lamentare risulta compito penoso e inutile, perché la lista della spesa è pressochè infinita. Risulta al contrario molto più interessante fare l’operazione opposta, e chiedersi di cosa non ci si può assolutamente lamentare. Risposta: di se stessi.

Eh no, lamentarsi di sé oggi è innammissibile. Una bestemmia. Avete mai sentito qualcuno prendersela con se stesso? Non sia mai! Noi – presi uno ad uno, come singoli individui, ciascuno per sé - siamo dalla parte della ragione per principio, di diritto, noi non possiamo essere responsabili di alcunchè, stiamo forse scherzando? Noi possiamo solo ed esclusivamente essere vittime, soverchiate quotidianamente da torti e abusi dai quali è impossibile difendersi.

E poiché la cosa smisuratamente migliore di ogni altra, per ciascuno di noi, è se stesso, ne consegue che lamentarsi di se stessi è impossibile.

Lamentazioni - 2

Ogni oggetto e persona esiste in quanto ce ne si può lamentare. Le discussioni non sono nient’altro che uno scambio di lamentele, spesso in un un susseguirsi reciproco tipico, in base al quale ciascuno dei partecipanti cerca di convincere l’altro che è lui ad avere più diritto di lamentarsi, o ancora che i torti che subisce sono maggiori, o più numerosi e frequenti di quelli subiti dall’interlocutore. Altre volte, invece del solipsismo lamentatorio, si sceglie il coro: tra più interlocutori si trova un oggetto comune di cui lamentarsi, e ognuno dei partecipanti contribuisce di par suo a gettare benzina sul fuoco con esempi, citazioni e casi personali.

E - come tutto ciò che ama fare l’essere umano contemporaneo - quanto è facile lamentarsi! Nulla di più gratuito e gratificante che prendersela con qualcuno, scaricare su terzi tensioni, fallimenti, inadeguatezza, passività, responsabilità, frustrazioni, delusioni, obiettivi mancati, sconfitte. Lamentarsi è consolante, è una catarsi collettiva che ha come presupposto il mal comune, mezzo gaudio: se tutti ci lamentiamo di tutto, in fondo non ce la passiamo poi così male.

Lamentazioni - 1

Lamentiamoci, lamentarsi. Siamo forse occupati a fare altro durante il giorno? Se non è certo l’attività più alta dell’essere umano, oggi è senza dubbio la più praticata. Siamo tutti, indistintamente, una massa di lagnoni. Non facciamo che piangerci addosso. Per nessuno di noi nulla va come dovrebbe andare.

Con gli altri non parliamo, ma ci lamentiamo reciprocamente. Ognuno espone all’altro le proprie lagnanze, nella speranza di dimostrare che ciò per cui ci si lamenta non ha paragone con le ragioni dell’altro. Solitamente ciascuno di noi ritiene in fondo di essere l’unico ad avere veramente diritto di lamentarsi. Certo, tutti si lamentano, ma è contro di noi che la vita si accanisce particolarmente. Eh, tu non sai cosa ho passato io! Tu non puoi immaginare cosa è capitato a me!

giovedì 31 maggio 2007

Un'ingombrante eredità - 2

Quando leggo i filosofi o i teologi ho sempre la sensazione che parlino di un modello di essere umano, come dire, nato adulto, maturo, cosciente, critico, consapevole di sé e delle relazioni che ha con il mondo esterno, per diritto libero, per diritto indipendente, non un essere umano frutto di una crescita e di una maturazione, da individuo indifeso e passivo – una sorta di spugna, di tabula rasa di pochi centimetri – che assorbe schemi concettuali, codici, linguaggi, senza poter opporre resistenza.

È evidente che per i primi e fondamentali anni dell’esistenza di qualsiasi essere umano sono gli altri a essere responsabili del nostro modo di vedere il mondo. Da un certo punto di vista, noi non ne possiamo nulla.
Non sta a noi decidere che tipo di educazione riceveremo, e se i valori che ci verranno trasmessi saranno validi o meno. O se in realtà quelli che ci vengono presentati come valori e modelli non lo siano affatto. Nessun neonato o bambino – nessun essere umano – per un non breve e secondario periodo della sua vita possiede questa consapevolezza critica o capacità di giudizio. Prende quello che c’è, senza sapere cosa sia. E i comportamenti che ne conseguono non sono un’analisi critica dei modelli ricevuti, ma semplicemente la loro replica, la loro applicazione.

Diciamo che ciascuno di noi, dalla notte dei tempi, costruisce inconsapevolmente le basi di se stesso con mattoni di altri. Anzi, sono gli altri che gettano le fondamenta senza che noi si possa opporre resistenza. Toccherà poi a noi stabilire se continuare a costruire noi stessi su quelle stesse basi, se rafforzarle, modificarle o radere tutto al suolo e ripartire da capo.

Un'ingombrante eredità - 1

Come acquisiamo gli strumenti per interagire con il mondo e gli altri? Come giungiamo alla consapevolezza di noi stessi? Forse attraverso un graduale percorso individuale di apprendimento, una lenta maturazione fatta di prove ed errori, frutto di personali scelte o decisioni? Oppure l’individualità, l’autoconsapevolezza, la cultura e il sapere si raggiungono se non attraverso e mediante la relazione, necessariamente, e senza essere guidati da una precisa volontà?

Ho idea che non raggiungiamo la consapevolezza di noi stessi o non attribuiamo un certo senso o ordine alla realtà da zero, né (esclusivamente) grazie alle nostre forze o alla nostra volontà. Non è una nostra decisione, ma semplicemente ciò che accade. Non ho scelto di nascere a Torino, in Italia, ma così è accaduto. Non ho scelto di parlare l’italiano, né di frequentare le scuole elementari dalle suore francesi o, a quattrodici anni, il liceo scientifico. Non ho deciso né scelto tantissime altre cose che nel tempo hanno costituito l’ossatura di me stesso, della mia personalità, del mio punto di vista, del mio modo di relazionarmi con gli altri e con il mondo.

In altri termini: prima ho usato degli strumenti, solo successivamente ho cominciato a chiedermi che stumenti stessi utilizzando, e se erano appropriati agli scopi. Nel momento in cui senza volerlo, da neonati e bambini, introiettiamo ed ereditiamo un patrimonio di abitudini, conoscenze, modi di fare, opinioni e giudizi per esempio dai componenti del nostro nucleo familiare, non stiamo certo a chiederci se siano strumenti giusti o sbagliati: li usiamo, essendo quelli che ci vengono messi a disposizione. Nasciamo, e di conseguenza siamo inseriti in un nucleo familiare, in una serie di relazioni, di consuetudini, leggi, lingue, codici, simboli. Sono questi gli strumenti che ci vengono assegnati e che – quantomeno fino a un certo punto della nostra vita - non possiamo scegliere, e nemmeno ci rendiamo conto che li stiamo utilizzando.

mercoledì 30 maggio 2007

Nulla di rilevante da osservare - 4

Di conseguenza, a fronte di una crescita esponenziale del tempo speso a guardare, passiamo sempre meno tempo a confrontarci direttamente con il mondo e il reale, con il risultato che non ne sappiamo più nulla, non riusciamo a comprenderlo e interpretarlo. Prendete per esempio tutti i ‘vicini di casa’ che vengono intervistati quando capita che uno degli inquilini di un vicino appartamento abbia ammazzato qualcuno. Quando i giornalisti chiedono se per caso si erano mai accorti di qualcosa, tutti rispondono un po' imbarazzati, come colti di sorpresa ‘no, anzi, la famiglia sembrava normale, erano molto legati, erano persone perbene, erano discreti e riservati, noi non ci siamo mai accorti di nulla. Certo, possono essere capitati degli screzi, ma da qui a immaginare un tale orrore…’ e così via. Non conosciamo i nostri vicini di casa perché non ci relazioniamo direttamente con loro, non interagiamo, non ci confrontiamo, non li osserviamo direttamente. Il nostro vicino di casa potrebbe essere un mostro così come un genio, ma noi non ne sappiamo nulla. Non ci interessa, né ce lo siamo mai chiesti, sebbene viva proprio a pochi centimetri da noi.

Poi un bel giorno arriva la televisione, e scopre il velo di maya. I vicini non sono più esseri indeterminati, fantasmi che in teoria dovrebbero comportarsi in un certo modo. Grazie alla telecamera tutte queste possibili sovrapposizioni di stati collassano in una sola, definitiva realtà: quella televisiva, che svela - con nostra infinita sorpresa - l’orrore.

Ed ecco che d’un tratto veniamo a conoscenza di come vanno davvero le cose. Tutto ci si palesa davanti agli occhi, intenti a guardare avidamente ciò che avremmo dovuto e potuto osservare.

Nulla di rilevante da osservare - 3

Si potrebbe spingere la riflessione ancora più in là, per far emergere quanto radicalmente la televisione determini e condizioni il rapporto tra noi e la realtà.
Nella società contemporanea un qualsiasi fatto, di per sé, non sembra essere un’entità fisica quantificabile. Non è un qualcosa di concreto che accade qui e ora. Sembra piuttosto assomigliare a un’onda di probabilità, un qualcosa che sì, potrebbe esistere, ha molte probabilità di esistere soprattutto se si verificano una serie di condizioni, ma rimane potenza, e non atto. Ora, sembra che solo quando la televisione decide di osservare il fatto questo inizi davvero ad esistere. Per dirla nei termini della meccanica quantistica, la televisione fa sì che il fatto, da onda di probabilità o sovradeterminazione di stati, collassi nel fatto vero e proprio. E allo stesso modo della meccanica quantistica, dove si è verificato sperimentalmente che l’osservazione modifica le caratteristiche della particella osservata perturbandone lo stato, lo sguardo televisivo perturba il fatto, l’evento, con il risultato che ciò che noi vediamo non è l’evento in sé, ma una sua descrizione, frutto dell’interazione tra il fatto appartenente al mondo reale, gli strumenti utilizzati per osservarlo e l’osservatore stesso.

Nulla di rilevante da osservare - 2

La conseguenza è una drammatica sproporzione tra gli osservatori – i pochi delegati all’osservazione diretta del reale – e gli spettatori, o il pubblico, rappresentato dai moltissimi che non fanno altro che starsene passivamente seduti a guardare il mondo descritto da altri.

Qualcuno obietterà che il mondo è così vasto che è impossibile essere testimoni di tutto in prima persona. E se non ci fosse qualcuno al posto nostro a osservare, sarebbe impossibile anche solo venire a a conoscenza che c’è qualcosa, o qualcosa sta accadendo in qualche remoto angolo del mondo. Rispondo che è vero – e le riflessioni di Un semplice punto di vista riguardano proprio questo argomento – ma il dramma è che abbiamo smesso di osservare anche ciò che sarebbe alla nostra portata. La proliferazione di punti di vista preconfezionati ci induce a rinunciare in partenza a vedere personalmente come vanno le cose. Chi ce lo fa fare? Perché sforzarsi quando c’è qualcun altro che se ne fa carico? Del resto è estremamente comodo, e non costa nulla.

Nulla di rilevante da osservare - 1

L’uomo contemporaneo ha smesso di osservare la realtà direttamente. Non si relaziona con il mondo esterno di persona. Lo fa esclusivamente attraverso un altro punto di vista, un secondo filtro: un qualcosa/qualcuno che ha già osservato al posto suo.

Ciò implica che ciò di cui veniamo a conoscenza nel corso della nostra relazione con il mondo esterno non è frutto di un’analisi diretta e di una personale elaborazione, ma è una somma di conoscenze mediate. Abbiamo smesso di porci di fronte al mondo e di porgli domande, preferendo anche in questo delegare il compito dell’osservazione a qualcun altro: televisione, cinema, fotografia, stampa ecc. Ciascuno di noi ha sempre meno esperienza diretta del reale, e l’opinione che se ne fa è un puzzle di opinioni elaborate da altri. Conosciamo il reale solo per interposta persona.

Non ci sforziamo di interpretare il reale: ci affidiamo a qualcuno che lo interpreti per noi, e ci liberi di questo fastidio.

sabato 26 maggio 2007

Ideali vs realtà - 6

Non resta che compiere un rovesciamento. Le basi si chiamano così perché partono dal basso, dal contatto diretto con la terra, e su di esse appoggia tutta la costruzione; e – dato ancora più rilevante - se le basi sono buone ci si può innalzare notevolmente verso il cielo. Partiamo allora dal basso, dai limiti, e non dai principi. Partiamo dal com’è, piuttosto che dal come dovrebbe essere. Riconosciamo la nostra identità nell’essere, perfettibile e mortale, non nel dover-essere. Tutto ciò, invece che complicare, semplificherebbe la vita, la renderebbe più piacevole. Impareremmo a guardare tante cose diciamo non di buon occhio, ma sotto un altro punto di vista.

Ideali vs realtà - 5

Senza ideali la vita risulta improvvisamente simpatica, fa tenerezza. Nella sua molteplicità di manifestazioni ed espressioni, nelle sue contraddizioni, nella sua ipocrisia e nella sua evidente potenza e nei suoi manifesti limiti la vita è finalmente vivibile, godibile, umana, e non un qualcosa di irraggiungibile. Non è una meta, ma proprio ciò che stiamo vivendo. È questo, qui ed ora. Partendo da questi presupposti si comprendono molto meglio tante cose. Si inizia a guardare a se stessi e agli altri non come imperfezioni, ma come esseri che sono ciò che dimostrano di essere. Si scoprono non solo vette ma abissi, o lunghi sentieri pianeggianti. Ci si trova tutto ad un tratto ridimensionati, a proprio agio, tra simili che condividono la stessa curiosa e contraddittoria esperienza.

Ideali vs realtà - 4

Che cos’è la felicità se non l’abbandono immediato di tutti gli ideali? L’idea di perfezione non sparirebbe affatto, tornerebbe semplicemente con i piedi per terra. insomma torneremmo a osservare la realtà e a misurarci con essa, paragonando tra loro diverse espressioni della vita reale, e non universi fantastici troppo lontani da raggiungere per i nostri modesti mezzi.

Ideali vs realtà - 3

Vi prego, signori filosofi, non alzate la voce! So perfettamente anch’io che la filosofia ha già constatato il decesso (o quantomeno il crepuscolo) degli idoli… Gli ideali! Ma per chi mi prendete? Per uno sprovveduto che non ha letto Voltaire o Nietzche? O che non ha seguito il dibattito contemporaneo sull’argomento? So benissimo che i nostri saggi filosofi sono sempre in pole position e in anticipo sui tempi… I nostri dottoroni! Quanto li stimo. Ma nostra sorella filosofia, la nostra più alta attività intellettuale, ha forse inciso anche solo per un istante sulla realtà? Se sì, sapete indicarmi giorno e ora? Perché la verità è che come al solito la filosofia e tutti i nostri saggi messi assieme non sono serviti a nulla, gli ideali continuano a fare proseliti e a mietere vittime, si fanno delle grasse risate alle spalle delle palandrane che vendono fumo e tutto continua pacificamente ad andare come sempre. Nonostante la filosofia, la realtà è sempre più in secondo piano, anzi è ormai dietro le quinte. Davanti ai nostri occhi luccicano il mondo ideale, la società ideale, il dio perfetto, il lavoro ideale, il punto di vista ideale, l’uomo ideale, la donna ideale, l'amore ideale… tutte fantasie sinceramente troppo semplici da pensare.

Ma signori miei, quale possente sforzo intellettuale è fantasticare? Cosa ci vuole a immaginare ciò che non esiste? Basta fare finta di scordarsi l’altra metà della medaglia, quella che non può brillare.

Ideali vs realtà - 2

Mi chiedo cosa ci sia di piacevole, vantaggioso o saggio nel riferirci costantemente a un mondo ideale. A chi giova? Ma vi pare davvero utile alla causa operare costamentemente un paragone con un qualcosa che non può per definizione esistere? Che gusto c’è a fare uscire sempre come sconfitta la nostra fottutissima esistenza, quella sì ben più concreta?

Ideali vs realtà - 1

La realtà è scomparsa.

Non facciamo altro che confrontarci con rappresentazioni, interpretazioni, descrizioni, proiezioni o specchi del mondo, e sempre più raramente con la realtà in se stessa. Fuggiamo dalla realtà, la ripudiamo e la rinneghiamo. La realtà è degenerata, è imperfetta, è un errore, non è colpa o responsabilità nostra.

Preferiamo accettare passivamente interpretazioni preconfezionate della realtà piuttosto che sforzarci di guardarla negli occhi. E nuovamente - come nel caso della memoria esterna - preferiamo delegare l'interpretazione del reale ad altri. Perchè sforzarci di interpretare quando c'è qualcuno che si è accollato questo gravoso e noioso compito?

È da secoli che evitiamo di guardare la realtà in faccia. Preferiamo gli aldilà, i paradisi, le utopie, gli ideali. Preferiamo sognare qualcosa per definizione irraggiungibile, e per sua natura irrealizzabile nella realtà. Preferiamo vivere da spettatori uno spettacolo che è semplicemente una rappresentazione, e non qualcosa di reale. In mente non abbiamo altro che modelli ideali. La nostra vita non si basa altro che su paragoni con mondi perfetti, dove le cose vanno come dovrebbero andare, e non come devono. Sperperiamo gran parte del nostro tempo a redigere confronti e a lamentarci dei risultati (perché chissà come mai la realtà così come la viviamo risulta sempre perdente), ma nessuno muove un dito per provare concretamente a modificarla.
Perché in fondo non è possibile. Rispetto alla realtà ideale, qualsiasi concreta realtà, anche la migliore, sembra uno sgorbio.

giovedì 24 maggio 2007

A proposito di Todorov e della natura umana

Eppure Todorov aveva cominciato bene.
Sul buono e il cattivo uso di ‘natura umana’: così recita l’intrigante titolo del suo ultimo saggio, pubblicato sul numero attualmente in edicola di Micromega. E vista la quantità di pseudopensieri da me elaborati sul medesimo argomento, lo scritto di Todorv mi ha fatto subito venire l’acquolina in bocca. L’idea di poter leggere le considerazioni di uno dei più importanti intellettuali contemporanei mi è sembrato un vero e proprio colpo di fortuna.

L’entusuasmo non è venuto meno nemmeno alla lettura del sottotitolo: ‘il dibattito sulla natura umana non si è spento, tutt’altro; ma se ha ancora senso utilizzare oggi questa nozione non può essere né alla maniera di Montaigne – ‘tutto è cultura’ – né secondo la prospettiva di Diderot – ‘tutto è natura’ – bensi prolungando le domande che furono di Rousseau, e cercando risposte che siano ancora più adeguate’. Ipse dixit.
Beh, anche se mi aspettavo qualche accenno in più sul significato contemporaneo della natura umana, la strada proposta da Todorov mi sembra estremamente interessante – anche se colpisce che la squadra messa in campo per affrontare l’argomento sia composta unicamente di tre transalpini, pare gli unici deputati a esprimersi adeguatamente intorno all’uso della nozione di natura umana.

Ma se questo team ci aiuterà a trovare risposte adeguate alle mutate esigenze dei tempi, ben venga! Del resto che questo sia il programma dichiarato di Todorov, lo si evince dalle prime righe del saggio vero e proprio: ‘parlerò del presente servendomi di parole passate, proprio perché le percepiamo come parole, e ne diffidiamo’. Chiarissimo. Un programma che chiamerei di filosofia vintage. Proseguendo nella lettura, le prime parole passate che ci vengono presentate sono quelle di Montaigne, con particolare riferimento al saggio Della consuetudine. Ebbene, come già anticipato nel sottotitolo, Todorov ci invita a diffidare delle parole – e della definizione – di Montaigne, il quale sostiene che ‘le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti attorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione’. Per rendere la posizione di Montaigne insostenibile, Todorov in primo luogo definisce aporie i suoi argomenti, poi smonta un supposto sillogismo, finendo col liquidare la sua posizione identificandola con uno scetticismo negatore.

Stessa sorte è riservata al secondo transaplino, Diderot, tirato in ballo in quanto autore del Supplemento al viaggio di Bouganville e portabandiera della seconda corrente di pensiero, quella che sostiene - per farla breve – che ‘tutto è natura, per cui l’essere umano – scrive Todorov – è interamente determinato, stavolta però non dalla cultura ma dalla natura, egli non dispone di alcuna libertà personale, di alcuna capacità di sfuggire alla sua sorte, stabilita una volta per tutte.

Non ci resta che Rousseau. Del resto il sottotitolo ci aveva avvertito: se vogliamo saperne qualcosa di più la strada da percorrere è la sua. E se per molti versi – ci spiega Todorov – Rousseau concorda con Montaigne, se ne distacca su pochi ma essenziali argomenti. In primis, mentre le generalizzazioni prese in considerazione da Montaigne sono delle semplici induzioni, Rousseau sostiene che la natura umana esiste ma non è accessibile all’induzione: non è sommando conoscenze particolari che si attende al generale, bensì formulando delle ipotesi sulla struttura di ciascun fenomeno. Punto di partenza di siffatto programma è la celebre formula ‘cominciamo dunque con lo scartare tutti i fatti’.
C’è poi un secondo, fondamentale aspetto che distingue in modo netto le posizioni dei due francesi: secondo Rousseau ‘le regole della morale non dipendono dagli usi dei popoli’, ed ‘esistono le leggi eterne della natura e dell’ordine’: ‘vi è dunque nel fondo della nostra anima un principio innato di giustizia e virtù, in base al quale, malgrado le nostre massime, giudichiamo le nostre e le altrui azioni come buone o cattive’.

Ci pare di capire di essere arrivati finalmente al nocciolo della questione: l’uomo non è affatto un cane o un lupo, e di conseguenza non può essere lo zoologo a detenere la verità della specie umana, ma – direbbe Rousseau – è il filosofo, o meglio – secondo T – lo psicologo, l’antropologo, lo storico, sempre che non si lascino condizionare da dettagli o fatti troppo particolari.

A questo punto della lettura mi sento sempre più vicino alla verità, alla rivelazione. È ora che Todorov abbandoni le parole passate per offrirci la visione contemporanea della natura umana, anche se oggi la chiamiamo con altri nomi. E invece? Invece nulla. Volto pagina e il saggio, incredibilmente, termina. Ecco le laconiche, conclusive righe: ‘Sicchè al termine del percorso, siamo ricondotti al punto di partenza: dopo questa rievocazione degli usi della natura umana, resta da porsi senza scrupoli la questione di fondo: che cosa è? ma qui mi fermo’.
Avete capito? Ma qui mi fermo! Come dire: non è compito mio andare oltre. Io posso raccontarvi per filo e per segno cos’hanno detto gli altri, posso andare a scovare scritti di primaria rilevanza sull’argomento e metterli a confronto con acume, facendo emergere i loro punti di forza e le evidenti debolezze. Ma non chiedetemi di fare affermazioni riguardo all’oggi!

E dunque? Rimaniamo a bocca asciutta. Eppure l’esordio ci aveva incuriosito. ‘Parlerò del presente servendomi di parole passate’ – è un po’ l’idea della filosofia vintage che ho illustrato in qualche altro pensiero precedente, ma del presente non c’è nemmeno l’ombra. Anzi, dopo aver seguito Todorov nella sua preziosa ricostruzione, una volta arrivati al momento clou – il presente – Todorov si tira indietro. Qui mi fermo, dice Todorov. Inutile spingersi oltre, tanto non diremmo nulla di rilevante rispetto ai tre francesi. Bastano loro per raccontarci cos’è la natura umana oggi.

A chi giova tutto ciò? Nell’ipertrofia informativa nella quale siamo costretti (o abbiamo scelto) di vivere, c’è bisogno di riproporre e sottoporre a critica pensieri e teorie che risalgono a secoli passati, e dunque a società diverse dalle nostre? È proprio necessario rispolverare ancora una volta Montaigne, Diderot e Rousseau? O per essere più precisi: perché ci si limita solamente a questo? Perché continuiamo a guardare noi stessi esclusivamente atraverso schemi e strumenti altrui, obsoleti e anacronistici? So perfettamente che nulla nasce dal nulla, che la memoria del passato è il punto di partenza per costruire qualsiasi nuovo sistema di pensiero; ma possibile che non si possa fare lo sforzo di fare quantomeno un accenno alla contemporaneità?

Non ce l’ho con Todorov nello specifico, non sia mai. Ho però la sensazione che il suo atteggiamento sia una delle espressioni tipiche dell’intellettuale del XXI secolo (vedi) che non può pensare nulla di nuovo visto che chi lo ha preceduto si è gia domandato tutto e si è dato tutte le risposte. Gran parte dei saggi filosofici sono di questo calibro: una serie di citazioni di cose dette da altri, o confronti-scontri tra posizioni diverse, testi diversi, differenti punti di vista espressi in epoche diverse. È come se Todorov dicesse: ci rinuncio, tanto qualsiasi cosa mi azzardi ad affermare è sicuramente già stata detta più o meno negli stessi termini da qualcun altro; oppure: potrei anche illustrarvi le posizioni dei contemporanei, ma non farei altro che tornare su concetti già espressi in passato da altri pensatori.
Del resto, pensate anche solo a questo scritto: una citazione di una citazione di una citazione, e così via, in un gioco di scatole cinesi che sembra non terminare mai.

Grazie al cielo anche la redazione stessa si deve essere accorta dell’incompletezza della riflessione, e non a caso fa seguire all’articolo di Todorov un testo di Galimberti che – se non direttamente – sembra rappresentare una degna risposta alla domanda incompiuta.

Le magnifiche sorti e progressive - 11

L’importante è la salute.

Proprio stasera ci ribadiscono a gran voce che siamo vecchi, (i più vecchi d’europa, solo i giapponesi, nel mondo, sono più vecchi di noi). E siamo anche sempre più poveri. Fanculo. Sai che novità. Qui tutto ha l’odore sgradevole di ciò che è eccesivamente maturo e sconfina nel marcio, ma evidentemente l’olfatto generale si abitua presto a ogni genere di lezzo. Non sarebbe invece il caso di porre un limite di decenza alle nostre vite? Beh, non tutte, mi limiterei a quelli come noi, come me, per intenderci; sarebbe opportuno evitare di protrarre troppo in là l’esistenza di schifezzuole deboli e passive, povere e vecchie, rancorose e capaci solo di lamentarsi, ormai prive di memoria ma ossessionate dai ricordi. Qualcuno dovrebbe fermarci prima, anzi dovremmo essere noi stessi a prenderne coscienza. Un po’ come fece Mishima. Ma siamo solo dei dannatissimi vecchi, nient’altro, e la lucidità è ormai acqua passata.

Moralisti del cazzo. Certo, fate pure l’apologia della senilità. Esaltate le virtù della terza età! Cos’altro può fare una società vecchia se non cercare di rendere accettabile il proprio destino? Può forse permettersi di dire la verità? Ossia che la vecchiaia non è nient’altro che decadenza?

Ma certo, facciamoci mantenere in vita ancora più a lungo. Magari in ospedale. Magari da soli, completamente abbandonati a noi stessi, senza un cazzo di nessuno perché nessuno si è preoccupato di mettere al mondo dei figli. Magari inchiodati a un letto, attaccati a una flebo e dipendenti da medicinali per tirare a campare; il mondo in una stanza, un corridoio, circondati da esseri umani nel pieno delle loro forze che devono spendere la loro giornata e le loro energie per mantere questi ruderi in vita. Ahahahah che grande opportunità! Che fottutissimo progresso! Una massa di vecchi ignoranti sulle spalle del mondo, vecchi che assorbono tempo, spazio e risorse.

Noi no, non abbiamo la fortunata sorte dei replicanti di Blade Runner, che cessano di vivere al climax della loro potenza e bellezza, noi no, noi abbiamo scelto un altro destino. Del resto, va bene così, ci crediamo forse degli eroi? Siamo forse così cari agli dei da avere il privilegio di morire giovani? Eh no, noi siamo condannati a vivere a lungo, il più a lungo possibile, facendo qualsiasi cosa pur di restare anche solo come dei vegetali a sottolineare la nostra esistenza, a farla pesare al mondo intero.

E sapete qual è la cosa più ridicola di tutte? La barzelletta secondo la quale noi dovremmo incarnare il progresso, il futuro, la speranza, quando non ci siamo ancora resi conto che il dado è tratto, e che invece di un’inversione di tendenza stiamo rotolando senza possibilità di scampo verso il decadimento, la smemoratezza, il rimbambimento, la debolezza e la passività. È tutto qui, davanti ai nostri occhi, cazzo. Siamo noi. Ma nessuno che abbia un po’ di pelo sullo stomaco per dirlo a chiare lettere.

Eh no cari sbarbatelli dell’est! Eh no, govani fondamentalisti islamici! Altolà, giovani laureati! Dove pensate di andare? Fate i bravi e prendete questo lecca-lecca. Ci siamo ancora noi di mezzo, i vecchi, a occupare i posti buoni! Divertitevi pure, giocate certo, del resto i giovani devono ruzzolare, sbucciarsi i gomiti e le ginocchia, mentre noi ci intratteniamo con discorsi da grandi. Mi spiace, ma siamo ancora tra i coglioni. Ahahahah sapete cosa siamo? Un tappo. In cima ci siamo noi, i vecchi, un cazzo di tappo che cerca di opporsi a una grandissima pressione proveniente dal basso. Sarà forse tardi, ma prima o poi qualche benefattore ci farà saltare.

mercoledì 9 maggio 2007

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 7

Milioni, se non miliardi di esistenze - comprese le nostre - smentiscono quotidianamente la dichiarazione universale. La gran parte della popolazione mondiale non sarebbe nemmeno in grado di leggerla, in primis perché non sono poi molto coloro che sanno leggere, e secondariamente perché – se anche sapessero leggere – la dichiarazione è palese espressione di un modello di vita ‘occidentale’, e molte delle espressioni in essa contenute sarebbero incomprensibili, intraducibili, inattuabili in contesti diversi dai nostri. Non credo che molti individui abbiano idea di cosa siano le ferie retribuite, l’istruzione tecnica, il diritto allo svago o la disoccupazione. Possibile che non ci si renda conto della follia? Possibile che nessuno si ribelli a proclamazioni quali, per fare solo uno dei 30 esempi, ‘ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione’. Ma non vi viene da ridere? Queste parole hanno la forza di una barzelletta, uno scherzo, una presa in giro! L’uomo ha diritto di scegliere il proprio lavoro! Ma davvero?
Volete che raccontiamo qualche altra barzelletta? Ce ne sono di divertentissime, per esempio l’articolo 24: ‘ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite’.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 6

Bene, ma ora facciamo un gioco. Immaginiamo che nel corso di una trasmissione televisiva venga lanciato un filmato sulla dichiarazione universale dei principi dell’uomo. Il filmato ha una struttura molto semplice: per ogni articolo della dichiarazione vengono mostrare numerosissime immagini di ogni parte del mondo che sembrano mostrare come i diritti vengano calpestati ogni giorno.

La vera lettura del servizio dovrebbe però essere un'altra, a cui nessuno di noi è abituato e che non viene mai proposta. La conclusione dovrebbe essere esattamente l’opposta: lo spettatore dovrebbe comprendere che di fatto i diritti sono un puro frutto della fantasia, e non è la realtà che smentisce il diritto, ma piuttosto il contrario. Dovremmo ribellarci tutti contro questa visione distorta ed educorata del mondo, dovremmo rifiutarci di sentirci ancora raccontare barzellette che non fanno ridere.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 5

Si postula l’esistenza di una condizione comune e paradisiaca che prevede diritto alla vita, all’istruzione, alla scelta del lavoro e allo svago; si postula l’esistenza di un mondo in cui tutti sono liberi di esprimersi, liberi di cambiare paese, liberi di riunirsi in associazione, liberi di professare qulsiasi credo; si postula l’esistenza di un mondo in cui ‘ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari’… Cos’altro può fare un povero scemo come il sottoscritto di fronte a questi solenni proclami? Fare un semplice esercizio: mi immagino di passare a volo d’uccello su varie parti del mondo, così, velocemente, e cerco di vedere dove questi diritti siano applicati e rispettati. Passo un po’ ovunque, ripeto mentalemente i nomi di qualche stato, passo di continente in continente, da quelli che curiose convenzioni stabiliscono come civilizzati a quelli meno, ma alla prova dei fatti non trovo un solo individuo su tutto il pianeta che gode completamente di tali diritti. Dunque? Come devo interpetare questo dato di fatto, questa constatazione? Devo forse – come già detto – prendermela con il mondo intero? Disperarmi dell’imperfezione della vità? Non posso fare altro che lamentarmi da adesso all’ultimo dei miei giorni ciò che è mio diritto non mi viene garantito? E non solo a me, ma a nessun essere umano sulla faccia del pianeta? Sarebbe una follia, eppure è proprio ciò che accade.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 4

E poi, se lasciamo un attimo da parte il nostro bel primo mondo e pensiamo al restante 90% delle persone che abitano il pianeta, cosa dobbiamo pensare? Non è forse ora di comprendere che non è il mondo ad essere sbagliato, ma il suo fottuto modello? La responsabilità di questo disastro, di questo desolante panorama non è la vita in sé, con i suoi limiti e le sue potenzialità, ma quei gran signori che un giorno si sono accomodati attorno a un tavolo, e tra ogni comfort hanno preso carta e penna e hanno trasformato il mondo in favola.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 3

Voilà. Allora, che ne dite? Qual è la vostra reazione alla lettura? Che impressone avete? Vi viene voglia di stringere tutto il mondo in una abbraccio fraterno? State versando lacrime di commozione cullandovi nell’ideale di un’umanità modellata a immagine e somiglianza di questi trenta articoli?

Personalmente rinuncio alle lacrime di gioia e ai facili entusiasmi. In realtà dovrebbe formarsi un movimento planetario contro il presupposto stesso del documento, ossia che il mondo da esso descritto esista, sia specchio del mondo reale. In realtà non esiste descrizione più aberrante e nociva di quella contenuta in quei trenta articoletti. È indispensabile comprendere che il mondo descritto dal documento non esiste, non c’è, è un dannatissimo modello, nulla più che un ideale, dunque qualcosa di inservibile, inapplicabile, inarrivabile.
Tutto ciò vi sembra onesto? Non vi sentite presi in giro?
Io non riesco proprio a soffrire, a lamentarmi o disperarmi del fatto che in ogni parte del mondo i diritti umani vengano costantemente negati; e nemmeno mi viene in mente di scendere in piazza per gridare a favore dei diritti e contro la realtà; al contrario, mi infurio contro chi propone questa interpretazione aberrante e falsa dell’esistenza. Non me la prendo con ciò che osservo quotidianamente, ma con ciò che qualcuno vorrebbe che io vedessi.

E poi, perché affermare universalmente, per esempio, il diritto all’istruzione? E se una collettività avesse invece stabilito che l’educazione è nociva? Che cosa se ne fa una persona del diritto alle ferie se non sa nemmeno cosa sono, se la sua esistenza non è basata sulla polarità lavoro-vacanza? La dichiarazione dei diritti è arrogante perché pretende di imporre un modello di vita anche a chi ne è completamente estraneo: un mondo fatto di assurdità quali il diritto di associazione, il diritto alla sicurezza, alla libertà di movimento, al lavoro e a un’equa retribuzione… ma vi rendete conto della portata di queste fandonie, della loro dannosità? E poi, sarebbe già un buon risultato se questi supposti diritti valessero quantomeno nel cosiddetto primo mondo, se qui trovassero applicazione… ma vi sembra forse che in Italia godiamo di questi diritti? Siamo liberi di scegliere il nostro lavoro? Abbiamo lavori equamente retribuiti? Godiamo forse del diritto di essere ritenuti innocenti fino a quando la nostra colpevolezza non sia provata? Potrei continuare così per tutti e trenta gli articoli. Tutto ciò è ridicolo. E cosa dovremmo fare, allora? Scrivere ogni santo giorno al tribunale dei diritti dell’uomo denunciando come i nostri preziosi e presunti diritti vengano quotidianamente calpestati? Non faremmo altro che intasare la giustizia universale con proteste e lagnanze del tutto superflue, visto che la nostra esistenza non aderirà mai e in alcun modo al modello che ce ne viene offerto.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 2

Vi siete mai presi la briga di leggere la dichiarazione? Proviamo a sintetizzare qui di seguito i trenta articoli che rappresentano il suo nucleo essenziale, tralasciando per il momento le premesse, su cui torneremo più avanti.

1 - gli esseri umani nascono liberi e uguali in diginità e diritti. Sono dotati di ragione e coscienza e devono agire in spirito di fratellanza.
2 - ad ogni individuo spettano tutti i diritti enunciati nella presente dichiarazione
3 – ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza
4 – è proibita la schiavitù
5 – proibiti i trattamenti degradanti e le punizioni
6 - diritto in ogni luogo alla propria personalità giuridica
7 – siamo tutti uguali davanti alla legge
8 – diritto di ricorso a tribunali nazionali contro atti che violino i diritti
9 – nessuno può essere arbitrariamente arrestato, detenuto, esiliato
10 – diritto a una pubblica udienza davanti a un tribunale indipendente
11 – diritto di preseunta innocenza sino a che la colpevolezza non sia provata legalmente
12 – nessuna interferenza nella vita privata
13 – diritto alla libertà di movimento; diritto di lasciare e tornare nel proprio paese
14 – diritto di godere di asilo politico
15 – diritto di cittadinanza
16 – diritto di sposarsi e fondare una famiglia; la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società
17 – diritto alla proprietà privata e comune
18 – diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione
19 – libertà di opinione ed espressione
20 – libertà di riunione e associazione
21 – diritto di partecipare al governo del proprio paese; libero accesso ai pubblichi impieghi del proprio paese; la volontà popolare fonda l’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso libere elezioni a suffragio universale e segreto
22 – diritto alla sicurezza sociale
23 – diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a soddisfacenti condizioni di lavoro; diritto di uguale retribuzione per uguale lavoro
24 – diritto al riposo, allo svago, a ferie periodiche e retribuite
25 – diritto a un sufficiente tenore di vita con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; maternità e infanzia hanno diritto a speciali cure e assistenza.
26 – diritto all’istruzione, gratuita per le classi fondamentali; l’istruzione deve indirizzarsi al pieno sviluppo della personalità
27 - diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici
28 - diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati
29 - Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità; nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e della libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica; questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite.
30 - Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato gruppo o persona di esercitare un'attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati.