giovedì 24 maggio 2007

A proposito di Todorov e della natura umana

Eppure Todorov aveva cominciato bene.
Sul buono e il cattivo uso di ‘natura umana’: così recita l’intrigante titolo del suo ultimo saggio, pubblicato sul numero attualmente in edicola di Micromega. E vista la quantità di pseudopensieri da me elaborati sul medesimo argomento, lo scritto di Todorv mi ha fatto subito venire l’acquolina in bocca. L’idea di poter leggere le considerazioni di uno dei più importanti intellettuali contemporanei mi è sembrato un vero e proprio colpo di fortuna.

L’entusuasmo non è venuto meno nemmeno alla lettura del sottotitolo: ‘il dibattito sulla natura umana non si è spento, tutt’altro; ma se ha ancora senso utilizzare oggi questa nozione non può essere né alla maniera di Montaigne – ‘tutto è cultura’ – né secondo la prospettiva di Diderot – ‘tutto è natura’ – bensi prolungando le domande che furono di Rousseau, e cercando risposte che siano ancora più adeguate’. Ipse dixit.
Beh, anche se mi aspettavo qualche accenno in più sul significato contemporaneo della natura umana, la strada proposta da Todorov mi sembra estremamente interessante – anche se colpisce che la squadra messa in campo per affrontare l’argomento sia composta unicamente di tre transalpini, pare gli unici deputati a esprimersi adeguatamente intorno all’uso della nozione di natura umana.

Ma se questo team ci aiuterà a trovare risposte adeguate alle mutate esigenze dei tempi, ben venga! Del resto che questo sia il programma dichiarato di Todorov, lo si evince dalle prime righe del saggio vero e proprio: ‘parlerò del presente servendomi di parole passate, proprio perché le percepiamo come parole, e ne diffidiamo’. Chiarissimo. Un programma che chiamerei di filosofia vintage. Proseguendo nella lettura, le prime parole passate che ci vengono presentate sono quelle di Montaigne, con particolare riferimento al saggio Della consuetudine. Ebbene, come già anticipato nel sottotitolo, Todorov ci invita a diffidare delle parole – e della definizione – di Montaigne, il quale sostiene che ‘le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti attorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione’. Per rendere la posizione di Montaigne insostenibile, Todorov in primo luogo definisce aporie i suoi argomenti, poi smonta un supposto sillogismo, finendo col liquidare la sua posizione identificandola con uno scetticismo negatore.

Stessa sorte è riservata al secondo transaplino, Diderot, tirato in ballo in quanto autore del Supplemento al viaggio di Bouganville e portabandiera della seconda corrente di pensiero, quella che sostiene - per farla breve – che ‘tutto è natura, per cui l’essere umano – scrive Todorov – è interamente determinato, stavolta però non dalla cultura ma dalla natura, egli non dispone di alcuna libertà personale, di alcuna capacità di sfuggire alla sua sorte, stabilita una volta per tutte.

Non ci resta che Rousseau. Del resto il sottotitolo ci aveva avvertito: se vogliamo saperne qualcosa di più la strada da percorrere è la sua. E se per molti versi – ci spiega Todorov – Rousseau concorda con Montaigne, se ne distacca su pochi ma essenziali argomenti. In primis, mentre le generalizzazioni prese in considerazione da Montaigne sono delle semplici induzioni, Rousseau sostiene che la natura umana esiste ma non è accessibile all’induzione: non è sommando conoscenze particolari che si attende al generale, bensì formulando delle ipotesi sulla struttura di ciascun fenomeno. Punto di partenza di siffatto programma è la celebre formula ‘cominciamo dunque con lo scartare tutti i fatti’.
C’è poi un secondo, fondamentale aspetto che distingue in modo netto le posizioni dei due francesi: secondo Rousseau ‘le regole della morale non dipendono dagli usi dei popoli’, ed ‘esistono le leggi eterne della natura e dell’ordine’: ‘vi è dunque nel fondo della nostra anima un principio innato di giustizia e virtù, in base al quale, malgrado le nostre massime, giudichiamo le nostre e le altrui azioni come buone o cattive’.

Ci pare di capire di essere arrivati finalmente al nocciolo della questione: l’uomo non è affatto un cane o un lupo, e di conseguenza non può essere lo zoologo a detenere la verità della specie umana, ma – direbbe Rousseau – è il filosofo, o meglio – secondo T – lo psicologo, l’antropologo, lo storico, sempre che non si lascino condizionare da dettagli o fatti troppo particolari.

A questo punto della lettura mi sento sempre più vicino alla verità, alla rivelazione. È ora che Todorov abbandoni le parole passate per offrirci la visione contemporanea della natura umana, anche se oggi la chiamiamo con altri nomi. E invece? Invece nulla. Volto pagina e il saggio, incredibilmente, termina. Ecco le laconiche, conclusive righe: ‘Sicchè al termine del percorso, siamo ricondotti al punto di partenza: dopo questa rievocazione degli usi della natura umana, resta da porsi senza scrupoli la questione di fondo: che cosa è? ma qui mi fermo’.
Avete capito? Ma qui mi fermo! Come dire: non è compito mio andare oltre. Io posso raccontarvi per filo e per segno cos’hanno detto gli altri, posso andare a scovare scritti di primaria rilevanza sull’argomento e metterli a confronto con acume, facendo emergere i loro punti di forza e le evidenti debolezze. Ma non chiedetemi di fare affermazioni riguardo all’oggi!

E dunque? Rimaniamo a bocca asciutta. Eppure l’esordio ci aveva incuriosito. ‘Parlerò del presente servendomi di parole passate’ – è un po’ l’idea della filosofia vintage che ho illustrato in qualche altro pensiero precedente, ma del presente non c’è nemmeno l’ombra. Anzi, dopo aver seguito Todorov nella sua preziosa ricostruzione, una volta arrivati al momento clou – il presente – Todorov si tira indietro. Qui mi fermo, dice Todorov. Inutile spingersi oltre, tanto non diremmo nulla di rilevante rispetto ai tre francesi. Bastano loro per raccontarci cos’è la natura umana oggi.

A chi giova tutto ciò? Nell’ipertrofia informativa nella quale siamo costretti (o abbiamo scelto) di vivere, c’è bisogno di riproporre e sottoporre a critica pensieri e teorie che risalgono a secoli passati, e dunque a società diverse dalle nostre? È proprio necessario rispolverare ancora una volta Montaigne, Diderot e Rousseau? O per essere più precisi: perché ci si limita solamente a questo? Perché continuiamo a guardare noi stessi esclusivamente atraverso schemi e strumenti altrui, obsoleti e anacronistici? So perfettamente che nulla nasce dal nulla, che la memoria del passato è il punto di partenza per costruire qualsiasi nuovo sistema di pensiero; ma possibile che non si possa fare lo sforzo di fare quantomeno un accenno alla contemporaneità?

Non ce l’ho con Todorov nello specifico, non sia mai. Ho però la sensazione che il suo atteggiamento sia una delle espressioni tipiche dell’intellettuale del XXI secolo (vedi) che non può pensare nulla di nuovo visto che chi lo ha preceduto si è gia domandato tutto e si è dato tutte le risposte. Gran parte dei saggi filosofici sono di questo calibro: una serie di citazioni di cose dette da altri, o confronti-scontri tra posizioni diverse, testi diversi, differenti punti di vista espressi in epoche diverse. È come se Todorov dicesse: ci rinuncio, tanto qualsiasi cosa mi azzardi ad affermare è sicuramente già stata detta più o meno negli stessi termini da qualcun altro; oppure: potrei anche illustrarvi le posizioni dei contemporanei, ma non farei altro che tornare su concetti già espressi in passato da altri pensatori.
Del resto, pensate anche solo a questo scritto: una citazione di una citazione di una citazione, e così via, in un gioco di scatole cinesi che sembra non terminare mai.

Grazie al cielo anche la redazione stessa si deve essere accorta dell’incompletezza della riflessione, e non a caso fa seguire all’articolo di Todorov un testo di Galimberti che – se non direttamente – sembra rappresentare una degna risposta alla domanda incompiuta.

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