giovedì 31 maggio 2007

Un'ingombrante eredità - 2

Quando leggo i filosofi o i teologi ho sempre la sensazione che parlino di un modello di essere umano, come dire, nato adulto, maturo, cosciente, critico, consapevole di sé e delle relazioni che ha con il mondo esterno, per diritto libero, per diritto indipendente, non un essere umano frutto di una crescita e di una maturazione, da individuo indifeso e passivo – una sorta di spugna, di tabula rasa di pochi centimetri – che assorbe schemi concettuali, codici, linguaggi, senza poter opporre resistenza.

È evidente che per i primi e fondamentali anni dell’esistenza di qualsiasi essere umano sono gli altri a essere responsabili del nostro modo di vedere il mondo. Da un certo punto di vista, noi non ne possiamo nulla.
Non sta a noi decidere che tipo di educazione riceveremo, e se i valori che ci verranno trasmessi saranno validi o meno. O se in realtà quelli che ci vengono presentati come valori e modelli non lo siano affatto. Nessun neonato o bambino – nessun essere umano – per un non breve e secondario periodo della sua vita possiede questa consapevolezza critica o capacità di giudizio. Prende quello che c’è, senza sapere cosa sia. E i comportamenti che ne conseguono non sono un’analisi critica dei modelli ricevuti, ma semplicemente la loro replica, la loro applicazione.

Diciamo che ciascuno di noi, dalla notte dei tempi, costruisce inconsapevolmente le basi di se stesso con mattoni di altri. Anzi, sono gli altri che gettano le fondamenta senza che noi si possa opporre resistenza. Toccherà poi a noi stabilire se continuare a costruire noi stessi su quelle stesse basi, se rafforzarle, modificarle o radere tutto al suolo e ripartire da capo.

Un'ingombrante eredità - 1

Come acquisiamo gli strumenti per interagire con il mondo e gli altri? Come giungiamo alla consapevolezza di noi stessi? Forse attraverso un graduale percorso individuale di apprendimento, una lenta maturazione fatta di prove ed errori, frutto di personali scelte o decisioni? Oppure l’individualità, l’autoconsapevolezza, la cultura e il sapere si raggiungono se non attraverso e mediante la relazione, necessariamente, e senza essere guidati da una precisa volontà?

Ho idea che non raggiungiamo la consapevolezza di noi stessi o non attribuiamo un certo senso o ordine alla realtà da zero, né (esclusivamente) grazie alle nostre forze o alla nostra volontà. Non è una nostra decisione, ma semplicemente ciò che accade. Non ho scelto di nascere a Torino, in Italia, ma così è accaduto. Non ho scelto di parlare l’italiano, né di frequentare le scuole elementari dalle suore francesi o, a quattrodici anni, il liceo scientifico. Non ho deciso né scelto tantissime altre cose che nel tempo hanno costituito l’ossatura di me stesso, della mia personalità, del mio punto di vista, del mio modo di relazionarmi con gli altri e con il mondo.

In altri termini: prima ho usato degli strumenti, solo successivamente ho cominciato a chiedermi che stumenti stessi utilizzando, e se erano appropriati agli scopi. Nel momento in cui senza volerlo, da neonati e bambini, introiettiamo ed ereditiamo un patrimonio di abitudini, conoscenze, modi di fare, opinioni e giudizi per esempio dai componenti del nostro nucleo familiare, non stiamo certo a chiederci se siano strumenti giusti o sbagliati: li usiamo, essendo quelli che ci vengono messi a disposizione. Nasciamo, e di conseguenza siamo inseriti in un nucleo familiare, in una serie di relazioni, di consuetudini, leggi, lingue, codici, simboli. Sono questi gli strumenti che ci vengono assegnati e che – quantomeno fino a un certo punto della nostra vita - non possiamo scegliere, e nemmeno ci rendiamo conto che li stiamo utilizzando.

mercoledì 30 maggio 2007

Nulla di rilevante da osservare - 4

Di conseguenza, a fronte di una crescita esponenziale del tempo speso a guardare, passiamo sempre meno tempo a confrontarci direttamente con il mondo e il reale, con il risultato che non ne sappiamo più nulla, non riusciamo a comprenderlo e interpretarlo. Prendete per esempio tutti i ‘vicini di casa’ che vengono intervistati quando capita che uno degli inquilini di un vicino appartamento abbia ammazzato qualcuno. Quando i giornalisti chiedono se per caso si erano mai accorti di qualcosa, tutti rispondono un po' imbarazzati, come colti di sorpresa ‘no, anzi, la famiglia sembrava normale, erano molto legati, erano persone perbene, erano discreti e riservati, noi non ci siamo mai accorti di nulla. Certo, possono essere capitati degli screzi, ma da qui a immaginare un tale orrore…’ e così via. Non conosciamo i nostri vicini di casa perché non ci relazioniamo direttamente con loro, non interagiamo, non ci confrontiamo, non li osserviamo direttamente. Il nostro vicino di casa potrebbe essere un mostro così come un genio, ma noi non ne sappiamo nulla. Non ci interessa, né ce lo siamo mai chiesti, sebbene viva proprio a pochi centimetri da noi.

Poi un bel giorno arriva la televisione, e scopre il velo di maya. I vicini non sono più esseri indeterminati, fantasmi che in teoria dovrebbero comportarsi in un certo modo. Grazie alla telecamera tutte queste possibili sovrapposizioni di stati collassano in una sola, definitiva realtà: quella televisiva, che svela - con nostra infinita sorpresa - l’orrore.

Ed ecco che d’un tratto veniamo a conoscenza di come vanno davvero le cose. Tutto ci si palesa davanti agli occhi, intenti a guardare avidamente ciò che avremmo dovuto e potuto osservare.

Nulla di rilevante da osservare - 3

Si potrebbe spingere la riflessione ancora più in là, per far emergere quanto radicalmente la televisione determini e condizioni il rapporto tra noi e la realtà.
Nella società contemporanea un qualsiasi fatto, di per sé, non sembra essere un’entità fisica quantificabile. Non è un qualcosa di concreto che accade qui e ora. Sembra piuttosto assomigliare a un’onda di probabilità, un qualcosa che sì, potrebbe esistere, ha molte probabilità di esistere soprattutto se si verificano una serie di condizioni, ma rimane potenza, e non atto. Ora, sembra che solo quando la televisione decide di osservare il fatto questo inizi davvero ad esistere. Per dirla nei termini della meccanica quantistica, la televisione fa sì che il fatto, da onda di probabilità o sovradeterminazione di stati, collassi nel fatto vero e proprio. E allo stesso modo della meccanica quantistica, dove si è verificato sperimentalmente che l’osservazione modifica le caratteristiche della particella osservata perturbandone lo stato, lo sguardo televisivo perturba il fatto, l’evento, con il risultato che ciò che noi vediamo non è l’evento in sé, ma una sua descrizione, frutto dell’interazione tra il fatto appartenente al mondo reale, gli strumenti utilizzati per osservarlo e l’osservatore stesso.

Nulla di rilevante da osservare - 2

La conseguenza è una drammatica sproporzione tra gli osservatori – i pochi delegati all’osservazione diretta del reale – e gli spettatori, o il pubblico, rappresentato dai moltissimi che non fanno altro che starsene passivamente seduti a guardare il mondo descritto da altri.

Qualcuno obietterà che il mondo è così vasto che è impossibile essere testimoni di tutto in prima persona. E se non ci fosse qualcuno al posto nostro a osservare, sarebbe impossibile anche solo venire a a conoscenza che c’è qualcosa, o qualcosa sta accadendo in qualche remoto angolo del mondo. Rispondo che è vero – e le riflessioni di Un semplice punto di vista riguardano proprio questo argomento – ma il dramma è che abbiamo smesso di osservare anche ciò che sarebbe alla nostra portata. La proliferazione di punti di vista preconfezionati ci induce a rinunciare in partenza a vedere personalmente come vanno le cose. Chi ce lo fa fare? Perché sforzarsi quando c’è qualcun altro che se ne fa carico? Del resto è estremamente comodo, e non costa nulla.

Nulla di rilevante da osservare - 1

L’uomo contemporaneo ha smesso di osservare la realtà direttamente. Non si relaziona con il mondo esterno di persona. Lo fa esclusivamente attraverso un altro punto di vista, un secondo filtro: un qualcosa/qualcuno che ha già osservato al posto suo.

Ciò implica che ciò di cui veniamo a conoscenza nel corso della nostra relazione con il mondo esterno non è frutto di un’analisi diretta e di una personale elaborazione, ma è una somma di conoscenze mediate. Abbiamo smesso di porci di fronte al mondo e di porgli domande, preferendo anche in questo delegare il compito dell’osservazione a qualcun altro: televisione, cinema, fotografia, stampa ecc. Ciascuno di noi ha sempre meno esperienza diretta del reale, e l’opinione che se ne fa è un puzzle di opinioni elaborate da altri. Conosciamo il reale solo per interposta persona.

Non ci sforziamo di interpretare il reale: ci affidiamo a qualcuno che lo interpreti per noi, e ci liberi di questo fastidio.

sabato 26 maggio 2007

Ideali vs realtà - 6

Non resta che compiere un rovesciamento. Le basi si chiamano così perché partono dal basso, dal contatto diretto con la terra, e su di esse appoggia tutta la costruzione; e – dato ancora più rilevante - se le basi sono buone ci si può innalzare notevolmente verso il cielo. Partiamo allora dal basso, dai limiti, e non dai principi. Partiamo dal com’è, piuttosto che dal come dovrebbe essere. Riconosciamo la nostra identità nell’essere, perfettibile e mortale, non nel dover-essere. Tutto ciò, invece che complicare, semplificherebbe la vita, la renderebbe più piacevole. Impareremmo a guardare tante cose diciamo non di buon occhio, ma sotto un altro punto di vista.

Ideali vs realtà - 5

Senza ideali la vita risulta improvvisamente simpatica, fa tenerezza. Nella sua molteplicità di manifestazioni ed espressioni, nelle sue contraddizioni, nella sua ipocrisia e nella sua evidente potenza e nei suoi manifesti limiti la vita è finalmente vivibile, godibile, umana, e non un qualcosa di irraggiungibile. Non è una meta, ma proprio ciò che stiamo vivendo. È questo, qui ed ora. Partendo da questi presupposti si comprendono molto meglio tante cose. Si inizia a guardare a se stessi e agli altri non come imperfezioni, ma come esseri che sono ciò che dimostrano di essere. Si scoprono non solo vette ma abissi, o lunghi sentieri pianeggianti. Ci si trova tutto ad un tratto ridimensionati, a proprio agio, tra simili che condividono la stessa curiosa e contraddittoria esperienza.

Ideali vs realtà - 4

Che cos’è la felicità se non l’abbandono immediato di tutti gli ideali? L’idea di perfezione non sparirebbe affatto, tornerebbe semplicemente con i piedi per terra. insomma torneremmo a osservare la realtà e a misurarci con essa, paragonando tra loro diverse espressioni della vita reale, e non universi fantastici troppo lontani da raggiungere per i nostri modesti mezzi.

Ideali vs realtà - 3

Vi prego, signori filosofi, non alzate la voce! So perfettamente anch’io che la filosofia ha già constatato il decesso (o quantomeno il crepuscolo) degli idoli… Gli ideali! Ma per chi mi prendete? Per uno sprovveduto che non ha letto Voltaire o Nietzche? O che non ha seguito il dibattito contemporaneo sull’argomento? So benissimo che i nostri saggi filosofi sono sempre in pole position e in anticipo sui tempi… I nostri dottoroni! Quanto li stimo. Ma nostra sorella filosofia, la nostra più alta attività intellettuale, ha forse inciso anche solo per un istante sulla realtà? Se sì, sapete indicarmi giorno e ora? Perché la verità è che come al solito la filosofia e tutti i nostri saggi messi assieme non sono serviti a nulla, gli ideali continuano a fare proseliti e a mietere vittime, si fanno delle grasse risate alle spalle delle palandrane che vendono fumo e tutto continua pacificamente ad andare come sempre. Nonostante la filosofia, la realtà è sempre più in secondo piano, anzi è ormai dietro le quinte. Davanti ai nostri occhi luccicano il mondo ideale, la società ideale, il dio perfetto, il lavoro ideale, il punto di vista ideale, l’uomo ideale, la donna ideale, l'amore ideale… tutte fantasie sinceramente troppo semplici da pensare.

Ma signori miei, quale possente sforzo intellettuale è fantasticare? Cosa ci vuole a immaginare ciò che non esiste? Basta fare finta di scordarsi l’altra metà della medaglia, quella che non può brillare.

Ideali vs realtà - 2

Mi chiedo cosa ci sia di piacevole, vantaggioso o saggio nel riferirci costantemente a un mondo ideale. A chi giova? Ma vi pare davvero utile alla causa operare costamentemente un paragone con un qualcosa che non può per definizione esistere? Che gusto c’è a fare uscire sempre come sconfitta la nostra fottutissima esistenza, quella sì ben più concreta?

Ideali vs realtà - 1

La realtà è scomparsa.

Non facciamo altro che confrontarci con rappresentazioni, interpretazioni, descrizioni, proiezioni o specchi del mondo, e sempre più raramente con la realtà in se stessa. Fuggiamo dalla realtà, la ripudiamo e la rinneghiamo. La realtà è degenerata, è imperfetta, è un errore, non è colpa o responsabilità nostra.

Preferiamo accettare passivamente interpretazioni preconfezionate della realtà piuttosto che sforzarci di guardarla negli occhi. E nuovamente - come nel caso della memoria esterna - preferiamo delegare l'interpretazione del reale ad altri. Perchè sforzarci di interpretare quando c'è qualcuno che si è accollato questo gravoso e noioso compito?

È da secoli che evitiamo di guardare la realtà in faccia. Preferiamo gli aldilà, i paradisi, le utopie, gli ideali. Preferiamo sognare qualcosa per definizione irraggiungibile, e per sua natura irrealizzabile nella realtà. Preferiamo vivere da spettatori uno spettacolo che è semplicemente una rappresentazione, e non qualcosa di reale. In mente non abbiamo altro che modelli ideali. La nostra vita non si basa altro che su paragoni con mondi perfetti, dove le cose vanno come dovrebbero andare, e non come devono. Sperperiamo gran parte del nostro tempo a redigere confronti e a lamentarci dei risultati (perché chissà come mai la realtà così come la viviamo risulta sempre perdente), ma nessuno muove un dito per provare concretamente a modificarla.
Perché in fondo non è possibile. Rispetto alla realtà ideale, qualsiasi concreta realtà, anche la migliore, sembra uno sgorbio.

giovedì 24 maggio 2007

A proposito di Todorov e della natura umana

Eppure Todorov aveva cominciato bene.
Sul buono e il cattivo uso di ‘natura umana’: così recita l’intrigante titolo del suo ultimo saggio, pubblicato sul numero attualmente in edicola di Micromega. E vista la quantità di pseudopensieri da me elaborati sul medesimo argomento, lo scritto di Todorv mi ha fatto subito venire l’acquolina in bocca. L’idea di poter leggere le considerazioni di uno dei più importanti intellettuali contemporanei mi è sembrato un vero e proprio colpo di fortuna.

L’entusuasmo non è venuto meno nemmeno alla lettura del sottotitolo: ‘il dibattito sulla natura umana non si è spento, tutt’altro; ma se ha ancora senso utilizzare oggi questa nozione non può essere né alla maniera di Montaigne – ‘tutto è cultura’ – né secondo la prospettiva di Diderot – ‘tutto è natura’ – bensi prolungando le domande che furono di Rousseau, e cercando risposte che siano ancora più adeguate’. Ipse dixit.
Beh, anche se mi aspettavo qualche accenno in più sul significato contemporaneo della natura umana, la strada proposta da Todorov mi sembra estremamente interessante – anche se colpisce che la squadra messa in campo per affrontare l’argomento sia composta unicamente di tre transalpini, pare gli unici deputati a esprimersi adeguatamente intorno all’uso della nozione di natura umana.

Ma se questo team ci aiuterà a trovare risposte adeguate alle mutate esigenze dei tempi, ben venga! Del resto che questo sia il programma dichiarato di Todorov, lo si evince dalle prime righe del saggio vero e proprio: ‘parlerò del presente servendomi di parole passate, proprio perché le percepiamo come parole, e ne diffidiamo’. Chiarissimo. Un programma che chiamerei di filosofia vintage. Proseguendo nella lettura, le prime parole passate che ci vengono presentate sono quelle di Montaigne, con particolare riferimento al saggio Della consuetudine. Ebbene, come già anticipato nel sottotitolo, Todorov ci invita a diffidare delle parole – e della definizione – di Montaigne, il quale sostiene che ‘le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti attorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione’. Per rendere la posizione di Montaigne insostenibile, Todorov in primo luogo definisce aporie i suoi argomenti, poi smonta un supposto sillogismo, finendo col liquidare la sua posizione identificandola con uno scetticismo negatore.

Stessa sorte è riservata al secondo transaplino, Diderot, tirato in ballo in quanto autore del Supplemento al viaggio di Bouganville e portabandiera della seconda corrente di pensiero, quella che sostiene - per farla breve – che ‘tutto è natura, per cui l’essere umano – scrive Todorov – è interamente determinato, stavolta però non dalla cultura ma dalla natura, egli non dispone di alcuna libertà personale, di alcuna capacità di sfuggire alla sua sorte, stabilita una volta per tutte.

Non ci resta che Rousseau. Del resto il sottotitolo ci aveva avvertito: se vogliamo saperne qualcosa di più la strada da percorrere è la sua. E se per molti versi – ci spiega Todorov – Rousseau concorda con Montaigne, se ne distacca su pochi ma essenziali argomenti. In primis, mentre le generalizzazioni prese in considerazione da Montaigne sono delle semplici induzioni, Rousseau sostiene che la natura umana esiste ma non è accessibile all’induzione: non è sommando conoscenze particolari che si attende al generale, bensì formulando delle ipotesi sulla struttura di ciascun fenomeno. Punto di partenza di siffatto programma è la celebre formula ‘cominciamo dunque con lo scartare tutti i fatti’.
C’è poi un secondo, fondamentale aspetto che distingue in modo netto le posizioni dei due francesi: secondo Rousseau ‘le regole della morale non dipendono dagli usi dei popoli’, ed ‘esistono le leggi eterne della natura e dell’ordine’: ‘vi è dunque nel fondo della nostra anima un principio innato di giustizia e virtù, in base al quale, malgrado le nostre massime, giudichiamo le nostre e le altrui azioni come buone o cattive’.

Ci pare di capire di essere arrivati finalmente al nocciolo della questione: l’uomo non è affatto un cane o un lupo, e di conseguenza non può essere lo zoologo a detenere la verità della specie umana, ma – direbbe Rousseau – è il filosofo, o meglio – secondo T – lo psicologo, l’antropologo, lo storico, sempre che non si lascino condizionare da dettagli o fatti troppo particolari.

A questo punto della lettura mi sento sempre più vicino alla verità, alla rivelazione. È ora che Todorov abbandoni le parole passate per offrirci la visione contemporanea della natura umana, anche se oggi la chiamiamo con altri nomi. E invece? Invece nulla. Volto pagina e il saggio, incredibilmente, termina. Ecco le laconiche, conclusive righe: ‘Sicchè al termine del percorso, siamo ricondotti al punto di partenza: dopo questa rievocazione degli usi della natura umana, resta da porsi senza scrupoli la questione di fondo: che cosa è? ma qui mi fermo’.
Avete capito? Ma qui mi fermo! Come dire: non è compito mio andare oltre. Io posso raccontarvi per filo e per segno cos’hanno detto gli altri, posso andare a scovare scritti di primaria rilevanza sull’argomento e metterli a confronto con acume, facendo emergere i loro punti di forza e le evidenti debolezze. Ma non chiedetemi di fare affermazioni riguardo all’oggi!

E dunque? Rimaniamo a bocca asciutta. Eppure l’esordio ci aveva incuriosito. ‘Parlerò del presente servendomi di parole passate’ – è un po’ l’idea della filosofia vintage che ho illustrato in qualche altro pensiero precedente, ma del presente non c’è nemmeno l’ombra. Anzi, dopo aver seguito Todorov nella sua preziosa ricostruzione, una volta arrivati al momento clou – il presente – Todorov si tira indietro. Qui mi fermo, dice Todorov. Inutile spingersi oltre, tanto non diremmo nulla di rilevante rispetto ai tre francesi. Bastano loro per raccontarci cos’è la natura umana oggi.

A chi giova tutto ciò? Nell’ipertrofia informativa nella quale siamo costretti (o abbiamo scelto) di vivere, c’è bisogno di riproporre e sottoporre a critica pensieri e teorie che risalgono a secoli passati, e dunque a società diverse dalle nostre? È proprio necessario rispolverare ancora una volta Montaigne, Diderot e Rousseau? O per essere più precisi: perché ci si limita solamente a questo? Perché continuiamo a guardare noi stessi esclusivamente atraverso schemi e strumenti altrui, obsoleti e anacronistici? So perfettamente che nulla nasce dal nulla, che la memoria del passato è il punto di partenza per costruire qualsiasi nuovo sistema di pensiero; ma possibile che non si possa fare lo sforzo di fare quantomeno un accenno alla contemporaneità?

Non ce l’ho con Todorov nello specifico, non sia mai. Ho però la sensazione che il suo atteggiamento sia una delle espressioni tipiche dell’intellettuale del XXI secolo (vedi) che non può pensare nulla di nuovo visto che chi lo ha preceduto si è gia domandato tutto e si è dato tutte le risposte. Gran parte dei saggi filosofici sono di questo calibro: una serie di citazioni di cose dette da altri, o confronti-scontri tra posizioni diverse, testi diversi, differenti punti di vista espressi in epoche diverse. È come se Todorov dicesse: ci rinuncio, tanto qualsiasi cosa mi azzardi ad affermare è sicuramente già stata detta più o meno negli stessi termini da qualcun altro; oppure: potrei anche illustrarvi le posizioni dei contemporanei, ma non farei altro che tornare su concetti già espressi in passato da altri pensatori.
Del resto, pensate anche solo a questo scritto: una citazione di una citazione di una citazione, e così via, in un gioco di scatole cinesi che sembra non terminare mai.

Grazie al cielo anche la redazione stessa si deve essere accorta dell’incompletezza della riflessione, e non a caso fa seguire all’articolo di Todorov un testo di Galimberti che – se non direttamente – sembra rappresentare una degna risposta alla domanda incompiuta.

Le magnifiche sorti e progressive - 11

L’importante è la salute.

Proprio stasera ci ribadiscono a gran voce che siamo vecchi, (i più vecchi d’europa, solo i giapponesi, nel mondo, sono più vecchi di noi). E siamo anche sempre più poveri. Fanculo. Sai che novità. Qui tutto ha l’odore sgradevole di ciò che è eccesivamente maturo e sconfina nel marcio, ma evidentemente l’olfatto generale si abitua presto a ogni genere di lezzo. Non sarebbe invece il caso di porre un limite di decenza alle nostre vite? Beh, non tutte, mi limiterei a quelli come noi, come me, per intenderci; sarebbe opportuno evitare di protrarre troppo in là l’esistenza di schifezzuole deboli e passive, povere e vecchie, rancorose e capaci solo di lamentarsi, ormai prive di memoria ma ossessionate dai ricordi. Qualcuno dovrebbe fermarci prima, anzi dovremmo essere noi stessi a prenderne coscienza. Un po’ come fece Mishima. Ma siamo solo dei dannatissimi vecchi, nient’altro, e la lucidità è ormai acqua passata.

Moralisti del cazzo. Certo, fate pure l’apologia della senilità. Esaltate le virtù della terza età! Cos’altro può fare una società vecchia se non cercare di rendere accettabile il proprio destino? Può forse permettersi di dire la verità? Ossia che la vecchiaia non è nient’altro che decadenza?

Ma certo, facciamoci mantenere in vita ancora più a lungo. Magari in ospedale. Magari da soli, completamente abbandonati a noi stessi, senza un cazzo di nessuno perché nessuno si è preoccupato di mettere al mondo dei figli. Magari inchiodati a un letto, attaccati a una flebo e dipendenti da medicinali per tirare a campare; il mondo in una stanza, un corridoio, circondati da esseri umani nel pieno delle loro forze che devono spendere la loro giornata e le loro energie per mantere questi ruderi in vita. Ahahahah che grande opportunità! Che fottutissimo progresso! Una massa di vecchi ignoranti sulle spalle del mondo, vecchi che assorbono tempo, spazio e risorse.

Noi no, non abbiamo la fortunata sorte dei replicanti di Blade Runner, che cessano di vivere al climax della loro potenza e bellezza, noi no, noi abbiamo scelto un altro destino. Del resto, va bene così, ci crediamo forse degli eroi? Siamo forse così cari agli dei da avere il privilegio di morire giovani? Eh no, noi siamo condannati a vivere a lungo, il più a lungo possibile, facendo qualsiasi cosa pur di restare anche solo come dei vegetali a sottolineare la nostra esistenza, a farla pesare al mondo intero.

E sapete qual è la cosa più ridicola di tutte? La barzelletta secondo la quale noi dovremmo incarnare il progresso, il futuro, la speranza, quando non ci siamo ancora resi conto che il dado è tratto, e che invece di un’inversione di tendenza stiamo rotolando senza possibilità di scampo verso il decadimento, la smemoratezza, il rimbambimento, la debolezza e la passività. È tutto qui, davanti ai nostri occhi, cazzo. Siamo noi. Ma nessuno che abbia un po’ di pelo sullo stomaco per dirlo a chiare lettere.

Eh no cari sbarbatelli dell’est! Eh no, govani fondamentalisti islamici! Altolà, giovani laureati! Dove pensate di andare? Fate i bravi e prendete questo lecca-lecca. Ci siamo ancora noi di mezzo, i vecchi, a occupare i posti buoni! Divertitevi pure, giocate certo, del resto i giovani devono ruzzolare, sbucciarsi i gomiti e le ginocchia, mentre noi ci intratteniamo con discorsi da grandi. Mi spiace, ma siamo ancora tra i coglioni. Ahahahah sapete cosa siamo? Un tappo. In cima ci siamo noi, i vecchi, un cazzo di tappo che cerca di opporsi a una grandissima pressione proveniente dal basso. Sarà forse tardi, ma prima o poi qualche benefattore ci farà saltare.

mercoledì 9 maggio 2007

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 7

Milioni, se non miliardi di esistenze - comprese le nostre - smentiscono quotidianamente la dichiarazione universale. La gran parte della popolazione mondiale non sarebbe nemmeno in grado di leggerla, in primis perché non sono poi molto coloro che sanno leggere, e secondariamente perché – se anche sapessero leggere – la dichiarazione è palese espressione di un modello di vita ‘occidentale’, e molte delle espressioni in essa contenute sarebbero incomprensibili, intraducibili, inattuabili in contesti diversi dai nostri. Non credo che molti individui abbiano idea di cosa siano le ferie retribuite, l’istruzione tecnica, il diritto allo svago o la disoccupazione. Possibile che non ci si renda conto della follia? Possibile che nessuno si ribelli a proclamazioni quali, per fare solo uno dei 30 esempi, ‘ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione’. Ma non vi viene da ridere? Queste parole hanno la forza di una barzelletta, uno scherzo, una presa in giro! L’uomo ha diritto di scegliere il proprio lavoro! Ma davvero?
Volete che raccontiamo qualche altra barzelletta? Ce ne sono di divertentissime, per esempio l’articolo 24: ‘ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite’.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 6

Bene, ma ora facciamo un gioco. Immaginiamo che nel corso di una trasmissione televisiva venga lanciato un filmato sulla dichiarazione universale dei principi dell’uomo. Il filmato ha una struttura molto semplice: per ogni articolo della dichiarazione vengono mostrare numerosissime immagini di ogni parte del mondo che sembrano mostrare come i diritti vengano calpestati ogni giorno.

La vera lettura del servizio dovrebbe però essere un'altra, a cui nessuno di noi è abituato e che non viene mai proposta. La conclusione dovrebbe essere esattamente l’opposta: lo spettatore dovrebbe comprendere che di fatto i diritti sono un puro frutto della fantasia, e non è la realtà che smentisce il diritto, ma piuttosto il contrario. Dovremmo ribellarci tutti contro questa visione distorta ed educorata del mondo, dovremmo rifiutarci di sentirci ancora raccontare barzellette che non fanno ridere.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 5

Si postula l’esistenza di una condizione comune e paradisiaca che prevede diritto alla vita, all’istruzione, alla scelta del lavoro e allo svago; si postula l’esistenza di un mondo in cui tutti sono liberi di esprimersi, liberi di cambiare paese, liberi di riunirsi in associazione, liberi di professare qulsiasi credo; si postula l’esistenza di un mondo in cui ‘ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari’… Cos’altro può fare un povero scemo come il sottoscritto di fronte a questi solenni proclami? Fare un semplice esercizio: mi immagino di passare a volo d’uccello su varie parti del mondo, così, velocemente, e cerco di vedere dove questi diritti siano applicati e rispettati. Passo un po’ ovunque, ripeto mentalemente i nomi di qualche stato, passo di continente in continente, da quelli che curiose convenzioni stabiliscono come civilizzati a quelli meno, ma alla prova dei fatti non trovo un solo individuo su tutto il pianeta che gode completamente di tali diritti. Dunque? Come devo interpetare questo dato di fatto, questa constatazione? Devo forse – come già detto – prendermela con il mondo intero? Disperarmi dell’imperfezione della vità? Non posso fare altro che lamentarmi da adesso all’ultimo dei miei giorni ciò che è mio diritto non mi viene garantito? E non solo a me, ma a nessun essere umano sulla faccia del pianeta? Sarebbe una follia, eppure è proprio ciò che accade.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 4

E poi, se lasciamo un attimo da parte il nostro bel primo mondo e pensiamo al restante 90% delle persone che abitano il pianeta, cosa dobbiamo pensare? Non è forse ora di comprendere che non è il mondo ad essere sbagliato, ma il suo fottuto modello? La responsabilità di questo disastro, di questo desolante panorama non è la vita in sé, con i suoi limiti e le sue potenzialità, ma quei gran signori che un giorno si sono accomodati attorno a un tavolo, e tra ogni comfort hanno preso carta e penna e hanno trasformato il mondo in favola.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 3

Voilà. Allora, che ne dite? Qual è la vostra reazione alla lettura? Che impressone avete? Vi viene voglia di stringere tutto il mondo in una abbraccio fraterno? State versando lacrime di commozione cullandovi nell’ideale di un’umanità modellata a immagine e somiglianza di questi trenta articoli?

Personalmente rinuncio alle lacrime di gioia e ai facili entusiasmi. In realtà dovrebbe formarsi un movimento planetario contro il presupposto stesso del documento, ossia che il mondo da esso descritto esista, sia specchio del mondo reale. In realtà non esiste descrizione più aberrante e nociva di quella contenuta in quei trenta articoletti. È indispensabile comprendere che il mondo descritto dal documento non esiste, non c’è, è un dannatissimo modello, nulla più che un ideale, dunque qualcosa di inservibile, inapplicabile, inarrivabile.
Tutto ciò vi sembra onesto? Non vi sentite presi in giro?
Io non riesco proprio a soffrire, a lamentarmi o disperarmi del fatto che in ogni parte del mondo i diritti umani vengano costantemente negati; e nemmeno mi viene in mente di scendere in piazza per gridare a favore dei diritti e contro la realtà; al contrario, mi infurio contro chi propone questa interpretazione aberrante e falsa dell’esistenza. Non me la prendo con ciò che osservo quotidianamente, ma con ciò che qualcuno vorrebbe che io vedessi.

E poi, perché affermare universalmente, per esempio, il diritto all’istruzione? E se una collettività avesse invece stabilito che l’educazione è nociva? Che cosa se ne fa una persona del diritto alle ferie se non sa nemmeno cosa sono, se la sua esistenza non è basata sulla polarità lavoro-vacanza? La dichiarazione dei diritti è arrogante perché pretende di imporre un modello di vita anche a chi ne è completamente estraneo: un mondo fatto di assurdità quali il diritto di associazione, il diritto alla sicurezza, alla libertà di movimento, al lavoro e a un’equa retribuzione… ma vi rendete conto della portata di queste fandonie, della loro dannosità? E poi, sarebbe già un buon risultato se questi supposti diritti valessero quantomeno nel cosiddetto primo mondo, se qui trovassero applicazione… ma vi sembra forse che in Italia godiamo di questi diritti? Siamo liberi di scegliere il nostro lavoro? Abbiamo lavori equamente retribuiti? Godiamo forse del diritto di essere ritenuti innocenti fino a quando la nostra colpevolezza non sia provata? Potrei continuare così per tutti e trenta gli articoli. Tutto ciò è ridicolo. E cosa dovremmo fare, allora? Scrivere ogni santo giorno al tribunale dei diritti dell’uomo denunciando come i nostri preziosi e presunti diritti vengano quotidianamente calpestati? Non faremmo altro che intasare la giustizia universale con proteste e lagnanze del tutto superflue, visto che la nostra esistenza non aderirà mai e in alcun modo al modello che ce ne viene offerto.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 2

Vi siete mai presi la briga di leggere la dichiarazione? Proviamo a sintetizzare qui di seguito i trenta articoli che rappresentano il suo nucleo essenziale, tralasciando per il momento le premesse, su cui torneremo più avanti.

1 - gli esseri umani nascono liberi e uguali in diginità e diritti. Sono dotati di ragione e coscienza e devono agire in spirito di fratellanza.
2 - ad ogni individuo spettano tutti i diritti enunciati nella presente dichiarazione
3 – ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza
4 – è proibita la schiavitù
5 – proibiti i trattamenti degradanti e le punizioni
6 - diritto in ogni luogo alla propria personalità giuridica
7 – siamo tutti uguali davanti alla legge
8 – diritto di ricorso a tribunali nazionali contro atti che violino i diritti
9 – nessuno può essere arbitrariamente arrestato, detenuto, esiliato
10 – diritto a una pubblica udienza davanti a un tribunale indipendente
11 – diritto di preseunta innocenza sino a che la colpevolezza non sia provata legalmente
12 – nessuna interferenza nella vita privata
13 – diritto alla libertà di movimento; diritto di lasciare e tornare nel proprio paese
14 – diritto di godere di asilo politico
15 – diritto di cittadinanza
16 – diritto di sposarsi e fondare una famiglia; la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società
17 – diritto alla proprietà privata e comune
18 – diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione
19 – libertà di opinione ed espressione
20 – libertà di riunione e associazione
21 – diritto di partecipare al governo del proprio paese; libero accesso ai pubblichi impieghi del proprio paese; la volontà popolare fonda l’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso libere elezioni a suffragio universale e segreto
22 – diritto alla sicurezza sociale
23 – diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a soddisfacenti condizioni di lavoro; diritto di uguale retribuzione per uguale lavoro
24 – diritto al riposo, allo svago, a ferie periodiche e retribuite
25 – diritto a un sufficiente tenore di vita con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; maternità e infanzia hanno diritto a speciali cure e assistenza.
26 – diritto all’istruzione, gratuita per le classi fondamentali; l’istruzione deve indirizzarsi al pieno sviluppo della personalità
27 - diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici
28 - diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati
29 - Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità; nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e della libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica; questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite.
30 - Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato gruppo o persona di esercitare un'attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati.

Contro i Diritti Universali dell'Uomo, 1

La prima considerazione riguarda un testo che – scriverebbe il buon vecchio Nietzsche – ha trasformato il mondo in favola. Un testo che potrebbe essere annoverato tra le più alte espressioni della letteratura fantastica – addirittura utopistica, se mi è concesso il termine - se non fosse che viene offerto come, diciamo così, modello, punto di riferimento all’umanità intera. Sto parlando della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo - spero di non aver scordato qualche maiuscola.
Già il titolo fa sorridere: si parla di uomo e si coinvolge tutto l’universo. Come se noi fossimo presenti in ogni angolo e non confinati qui, sul pianeta che vive. Non potevamo limitarci a dichiarazione dei diritti dell’uomo, e basta? Non sia mai! Il nostro antropocentrismo, ancora oggi, non ha limiti. Dobbiamo farla sempre più grande di quello che è. E sia, che questa solenne dichiarazione valga anche nei più remoti anfratti dell’universo! In fondo, il titolo è l’ultimo dei problemi.

Considerazioni inattuali - Premessa

Con queste considerazioni non voglio dimostrare che faccio filosofia con la spada, come dichiara Nietzsche. Le definisco inattuali semplicemente perché non di attualità; considerazioni che vanno a toccare a volte dimenticanze, altre fraintendimenti, altre ancora nervi scoperti. Considerazioni su cose che sono sotto gli occhi di tutti ma che nessuno vuole vedere, e di cui chiunque si rifiuta di parlare.

Le mie inattuali sono tutt’altro che bellicose. Non nelle intenzioni, ci mancherebbe. Ma al contrario del precedente nietzschiano, queste riflessioni non faranno alcun clamore, né rappresentano un attentato. Vogliamo scherzare? Non le leggerà nessuno, e se qualcuno le leggesse le prenderebbe come lo sfogo di un originale, un chiacchierone che vuole attirare l’attenzione prendendosela con i dogmi.

Sarebbe certamente più utile tornare nuovamente a fare filosofia col martello, e andare in giro a fracassare un po’ di orpelli. Ma anche questo è già stato fatto e non ha sortito gli effetti desiderati. Quel dannato martello era anche lui solo un fottutissimo simbolo, le considerazioni sono rimaste considerazioni, e gli idoli, sempre in ottima salute, se la ridono senza sosta. alla luce di questo infinito crepuscolo.

venerdì 4 maggio 2007

Philos + Sophia - 9

Diciamo che non per loro scelta i filosofi amano il sommo inutile: continuano invano a cercare risposte e spiegazioni, scopi e fini, ordine e senso ben sapendo che non si fa altro da secoli, senza alcun successo. Forse l’impegno dei filosofi vuole arrivare ad accertare senz’ombra di dubbio che in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo non c’è risposta, non esiste senso. Vogliono dimostrarlo effettivamente, concretamente, ciascuno dal proprio angolo, dal proprio contesto. Non basta ipotizzarlo: è indispensabile verificarlo. Ecco il destino della filosofia e del suo perpetuo interrogarsi: verificare che la risposta sia sempre la stessa, e non cambi mai.

Prima uno, poi l’altro, poi un altro ancora, ininterottamente. Ci si tramanda silenziosamente e fedelmente questo compito: verificare scrupolosamente – ciascuno con gli strumenti, le capacità e le conoscenze, le potenzialità e i limiti specifici del proprio tempo e del luogo – quella che sembra essere una costante assenza di senso. Fino ad ora i precedenti confermano chiaramente quest’ipotesi, e ora tocca anche a noi. Siamo noi, ora, di fronte alla realtà, e spetta a noi - volenti o nolenti – confermare o meno le premesse.